
Spagna, con Rosa Díez spunta la terza forza

11 Marzo 2008
Sono state le elezioni più bipolari della storia di Spagna
dai tempi del ritorno alla democrazia nel 1977: 169 deputati del Partito
Socialista Operaio Spagnolo (Psoe) di Zapatero; 153 del Partito Popolare (Pp)
di Rajoy; e appena 28 per tutti gli altri. Eppure, proprio in questo voto è
entrata al Congreso Rosa Díez, fondatrice e leader dell’Unione Progresso e
Democrazia (Upyd). Ed è un risultato per molti versi clamoroso. Da quando nel
1993 si sfasciò il Centro Democratico e Sociale (Cds) di Adolfo Suárez, infatti,
è la prima volta che torna ad avere eletti un partito nazionale, e non
regionale, diverso da socialisti, popolari e comunisti di Sinistra Unita. E ci
entra tra l’altro proprio in un momento in cui la Sinistra Unita è invece al
suo minimo storico, con appena due eletti. E i comunisti, va ricordato, sono
una forza politica che in Spagna ha le radici antiche e solide, anche se
l’egemonia a sinistra che avevano acquisito durante la lotta antifranchista non
sono poi riusciti a conservarla nel periodo della transizione. L’Upyd è invece
un partito che ha appena sei mesi di vita, anche se ha l’appoggio di illustri
intellettuali: dai filosofi Carlos Martínez Gorriarán e Fernando Savater allo
scrittore Mario Vargas Llosa, all’economista Mikel Buesa Blanco, allo storico
Antonio Elorza. Nomi grossi, di cui però si può dubitare se veramente siano in
grado di mobilitare grosse masse di votanti.
E pure dubbio è in effetti che l’elettorato spagnolo si sia
sentito all’improvviso orfano di quel centro affondato 15 anni fa. Il problema,
invece, è che il sistema elettorale proporzionale su piccoli collegi ha sì
permesso di arrivare ha un solido bipolarismo nazionale; ma al patto di
permettere anche la sopravvivenza di tanti partitini regionali, che hanno
sistematicamente impedito la formazione di maggioranze solide. In 31 anni dal
ritorno della democrazia, solo per 11 c’è stato un primo ministro con a
disposizione più della metà dei seggi: il socialista Felipe González tra 1982 e
1989 e il popolare José María Aznar tra 2000 e 2004. Per altri quattro anni
González ne ebbe nel 1989-93 la metà esatta. Ma per 16 anni ci sono stati
invece governi di minoranza: della scomparsa Ucd nel 1977-82; socialista nel
1993-96; popolare nel 1996-2000; di nuovo socialista dal 2004. E se la Costituzione
e i regolamenti parlamentari in vigore a Madrid consentono comunque governi di
legislatura anche con numeri che in Italia sarebbero ingestibili, resta però
una necessità di contrattare appoggi volta per volta che ha appunto esaltato al
massimo il potere di ricatto di questi partitini regionali. Da cui l’ulteriore
dilatarsi di un sistema di autonomie che era già di per sé ampio: sia per la
necessità di riparare i torti oggettivamente fatti dal regime franchista, sia
per prevenire pericoli come quelli posti dal terrorismo dell’Eta. Il guaio,
però, è che tra concessioni in campo della polizia e delle tv, della scuola e
della lingua, del fisco e del territorio, alla fine capita che siano quei
residenti in Catalogna o nei Paesi Baschi che si sentono “spagnoli” prima di
tutto, a ritenersi discriminati. Anche più di quanto non possa accadere agli
“italiani” in Alto Adige: che dopo tutto è una realtà molto più piccola che non
Catalogna o Euzkadi; che è stata integrata con l’Italia per un periodo storico
molto meno lungo; e in cui le distanze tra le etnie sono oggettivamente molto
più pronunciate. Provate a immaginare una Lombardia e una Sardegna dove cominci
a sentirsi discriminato chiunque usi l’italiano invece dell’idioma locale, e
potete avere idea dell’ondata di risentimenti che è cresciuta in questi anni.
Proprio questa ondata di risentimenti è stata all’origine
della crescita dell’Upyd: appunto, con la confluenza di organizzazioni civiche
“spagnoliste” delle regioni più “separatiste”, assieme a esponenti dei due
grandi partiti anch’essi stanchi di questo andazzo. Infatti il “centrismo”
dell’Upyd ha appunto un risvolto di protesta contro i “cedimenti” ai
regionalisti di Psoe e Pp, mentre i suoi slogan sulla democrazia liberale hanno
un sottinteso se non proprio giacobino, certo di esaltazione della “sovranità
nazionale” e dell’“eguaglianza civica” contro la corsa ai privilegi
localistici. Sempre questi risentimenti hanno portato a queste elezioni alla
crescita di socialisti e popolari e al crollo dei partiti regionalisti: specie
i più estremi. Paradossalmente, il piccolo ma significativo risultato di Upyd
non è dunque in controtendenza, ma un’ulteriore conferma del trend.
Ma molto, ovviamente, ha contribuito anche la personalità di
Rosa Díez. Nata a Güeñes nella provincia basca della Vizcaya, capelli biondi e
naso forte tipicamente spagnoli, Rosa ha due figli a cui ha dedicato un libro;
l’hobby della musica di Bob Dylan e di “passeggiare sui monti baschi”; e una
risaputa passione per la moda e i cappelli. Al Psoe si affiliò a 25 anni, al
momento delle prime elezioni democratiche. E come socialista fu anche deputata
regionale, membro del governo basco tra 1991 e 1998, e deputata europea tra
1999 e 2007. Ma già la sua opposizione al separatismo l’aveva fatta oggetto di
un fallito attentato dell’Eta nel 1997. E nel 1998 si presentò alle primarie
del Psoe per la candidatura alla premiership basca, su una piattaforma che
privilegiava l’intesa con i popolari, in nome dell’unità nazionale. Invece
vinse Nicolá Redondo, che preferiva i nazionalisti. Ma sulla campagna iniziò a
coagularsi attorno a lei una corrente definita “costituzionalista”.
Con tale corrente nel 2000 si candidò addirittura per la
leadership del Psoe nazionale. E stavolta fu sconfitta da Zapatero. Contro lo
stesso Zapatero iniziò una dura battaglia, quando questi da premier si mise a
cercare un nuovo negoziato con l’Eta. Accusata di violare la disciplina di
partito per aver partecipato ad alcune iniziative pubbliche di critica al
governo, lo scorso agosto stracciò in pubblico la tessera socialista presa
trent’anni prima “per poter difendere con maggior efficacia e libertà” le idee
per cui si era affiliata. E subito dopo ha fondato il nuovo partito. Trascurata
in principio dai media, con la sua forte personalità è riuscita lo stesso a
farsi largo, fino a ottenere questo risultato. Di Zapatero, continua a
condividere la linea laicista, a partire dalla Legge sul matrimonio
omosessuale. Ma chiede che lo Stato centrale recuperi le competenze in materia
di educazione, urbanistica e fisco. Che l’insegnamento della lingua materna sia
garantito in tutta la Spagna. Che sia cambiato il modo di elezione di Tribunale
Costituzionale e Consiglio Generale del Potere Giudiziario, per porre fine alla
“tutela politica della Giustizia”. In una parola, si oppone alle “politiche
reazionarie come l’aumento della diseguaglianza territoriale, la
discriminazione per ragioni linguistiche o identitarie e l’abbandono della
coesione nazionale per soddisfare il nazionalismo e le sue imitazioni
regionaliste”.
Contestata all’Università di Madrid da studenti
dell’ultrasinistra al grido di “Fuori i fascisti dall’Università!”, ha risposto
per le rime: “Fuori i fascisti dall’Università, giusto! Cosa fate ancora
dentro?”. Dice ora che “la Spagna ha bisogno di un terzo partito di ambito
nazionale, che offra ai cittadini le soluzioni ai problemi che veramente sono
importanti”. Promette che lavorerà “perché i nazionalisti non boicottino la
politica dello Stato”. E confessa di sentirsi come Davide “nella misura in cui,
alla fine, fu lui a sconfiggere Golia”.