Spider-Man funziona perché figlio della narrativa politically correct

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Spider-Man funziona perché figlio della narrativa politically correct

09 Luglio 2012

Nel cinema classico americano l’eroe era maturo, virile, adulto. Non di rado aveva anche tratti rudi, spigolosi, solitari. Due esempi tipici? John Wayne, sempre pronto a mettere mano alla pistola (o al fucile: nel finale di “Ombre rosse” di John Ford, da solo, imbracciando un Winchester e gettandosi in terra, ne stende tre). Humphrey Bogart, con la sigaretta perennemente tra le labbra e il gessato doppiopetto.

Nel cinema americano contemporaneo (che poi forse è il cinema) l’eroe invece è giovane, sensibile, di frequente tormentato, sempre politicamente corretto. E d’abitudine la provenienza dell’eroe non è storica (come lo era per il western) o sociale (il detective o il gangster), ma fumettistica. Infatti la stragrande maggioranza degli eroi della celluloide globalizzata stelle e strisce dell’ultimo ventennio, è uscita dal cappello magico dall’universo inesauribile del fumetto. Classico esempio è l’Uomo Ragno (Spider-Man).

La storia venne disegnata e sceneggiata nei primi anni Sessanta del Novecento, per conto della Marvel Comics. Storia semplice quanto geniale. Un ragazzino appassionato di fotografia viene punto casualmente da un ragno radioattivo. Deboluccio e con poca vista, il ragazzino si trasforma in un eroe dai poteri straordinari (metà uomo metà ragno). La stessa sorta tocca a Capitan America: da mingherlino l’eroe è trasformato in un gigante muscoloso. Che farne di poteri così sorprendenti? Meglio metterli al servizio delle forze del bene. Dunque proprio mentre il cinema americano cominciava ad accusare gravi sintomi di malessere, del nuovo eroe – Spider-Man – che avrebbe contribuito con incassi spettacolari a ridisegnare la nuova Hollywood, veniva definita la fisionomia. E dalla carta alla tridimensionalità il passo è stato davvero grande, ma, a ben pensarci, scontato.

Il cinema americano per non morire si è trasformato in un impasto di storie e idee sottratte all’universo dei prodotti di uso e consumo per adolescenti. L’impasto ha prodotto una retorica postmodernista (modellata sul genere di fantascienza e resa esplosiva dagli effetti speciali) politicamente corretta, che ha soppiantato ogni residuo artistico o ideologico. In tempi di fine dei “grandi racconti” occidentali (dell’incomprensibile e illeggibile prosa di Jean-François Lyotard, solo questo è stato un punto chiaro quanto propagandato), in realtà ne stavano nascendo altri, egualmente potenti. Uno di questi nuovi “grandi racconti” è rappresentato dalla trilogia di “Spider-Man”, diretta da Sam Raimi (2002, 2004, 2007) e interpretata da Tobey Maguire. Visto che le serie finché funzionano sul grande schermo non bisogna mai abbandonarle, ecco l’ennesimo prolungamento: “Amazing Spider-Man”.

D’abitudine la storia originale, allungata in due, tre o quattro appuntamenti successivi, torna indietro, alle origini, al cosa c’era prima. Invece con il nuovo Uomo-Ragno si è cambiato regista, Marc Webb, e soprattutto protagonista, Andrew Garfield. La storia invece è rimasta nella struttura essenziale. Una rivisitazione del già conosciuto, certo con varianti ma non così significative. Reinventare tutto senza reinventare niente? Come è possibile? Guardando “Amazing Spider-Man” si capisce che è possibile. E non è questione di 3D.

L’ultimo “Spider-Man” funziona anche senza l’aiuto degli occhiali. Funziona perché è lo specchio della narrativa hollywoodiana globalizzata, commerciale, adolescenziale, politicamente corretta (cioè quanto gli spettatori ad ogni longitudine e latitudine si aspettano). Il tutto elevato alla massima potenza da bellissimi effetti speciali. John Wayne sul male scaricava il fucile. Spider-Man, meno brutalmente, lo avvolge nella sua tela di ragno, e spicca un salto, sospeso nel vuoto, da un grattacielo all’altro.