
Sponsor e Gay pride: il coraggio non ce lo si può dare… (di E.Roccella)

09 Luglio 2021
Ricordiamo tutti, in una scena imbarazzante di qualche anno fa, il povero Guido Barilla costretto a scusarsi davanti alle telecamere per aver osato sostenere che i suoi prodotti li vende prevalentemente alle famiglie con mamma, papà e figli, e quindi la sua pubblicità era indirizzata a quel pubblico. Ricordiamo il vecchio, delizioso spot in cui la ragazzina che torna da scuola raccoglie un gattino sotto la pioggia e gli dà, appunto, una famiglia, una casa. Per quelle parole l’imprenditore fu massacrato, non dai consumatori, bensì dai media e dalle grandi reti di distribuzione, che minacciarono, soprattutto negli Usa, di ostracizzare la pasta Barilla se l’azienda non cambiava la sua comunicazione. Da allora le cose sono molto peggiorate. Nessuno può ormai esimersi dall’introdurre negli spot coppie gay, baci tra persone dello stesso sesso, oltre naturalmente a persone di etnie diverse, anche se tutto questo non c’entra niente con il prodotto. Non si fa rispondendo a logiche di mercato, costruendo cioè le campagne pubblicitarie sul proprio target di riferimento, ma solo per obbedire ai diktat del pensiero dominante: lo si fa per paura. Paura di ritorsioni, non da parte dei poveri consumatori, del tutto impotenti e ignorati, e nemmeno da parte delle minoranze che si vogliono “includere” (è questo il verbo magico con cui si coprono le operazioni di obbedienza timorosa). Il pensiero che accompagna la rivoluzione antropologica in atto è veicolato dai grandi media, trasmesso attraverso politiche aziendali rigide, con corsi di formazione ad hoc e minacce di licenziamenti, favorito da operazioni di boicottaggio e no-platform, da esclusioni e distruzioni di carriere accademiche, da shit storm organizzati e linciaggi sul web che non risparmiano nessuno (basta vedere come è stata trattata una scrittrice amata e popolare come la Rowling). La spinta vera a tutto questo è data da poteri verticali, transnazionali e non controllabili dai vecchi meccanismi democratici, ed è questa divaricazione tra élite invisibili e popolo che ha dato origine ai movimenti sovranisti.
E’ dunque abbastanza ovvio, anche se un po’ patetico, che ci sia la corsa a sponsorizzare i gay pride, a mettere bandiere arcobaleno ovunque, a dichiararsi (come fanno noti influencer foraggiati da Amazon e simili) a favore della legge Zan e della fluidità di genere. Non discutiamo la legittimità di queste scelte, anche se spesso è evidente che si tratta solo di allinearsi al pensiero dominante per quieto vivere. Va bene quindi che Unicredit sponsorizzi il gay pride di Milano, e illumini con i colori dell’arcobaleno la propria sede centrale; nessuno contesta questa scelta, né entra nelle motivazioni dell’istituto, che si dichiara “orgoglioso di supportare il pride”.
E’ lecito, però, fare quello che ha fatto Carlo Giovanardi, e cioè chiedere alla propria banca spiegazioni. Qualche domanda semplice semplice: l’Istituto è d’accordo con tutto quello che è stato detto e mostrato durante la parata milanese? E’ d’accordo, cioè, con le pesanti parodie di Gesù Cristo, con le immagini blasfeme, con gli attacchi al Vaticano, con la pratica dell’utero in affitto? Se non lo è, sarebbe bene segnalarlo, dissociandosi non dal gay pride, ma almeno da alcuni atteggiamenti dei partecipanti. Ma la risposta di Unicredit, oggi presieduta dall’ex ministro Padoan (che ricordavamo come un moderato, non certo un militante pro gender, alfiere della blasfemia e dello sfruttamento delle donne povere) è stata secca e burocratica: “promuovere un ambiente che accoglie diversità di pensiero e di idee permette di soddisfare al meglio le esigenze dei clienti”; si tratta di “inclusione”, ovviamente, ed è “parte integrante della nostra cultura aziendale”. Giovanardi ha preso atto, e ha spostato i suoi conti altrove. Anche noi prendiamo atto, e anche se non ci rassegniamo, comprendiamo: come diceva don Abbondio, “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.