Stato e prospettive della previdenza complementare
21 Settembre 2010
La ripresa delle attività produttive, dopo la pausa estiva, induce, ancora una volta, a tracciare una valutazione, sia pure quanto mai stilizzata, dello stato e delle prospettive della previdenza complementare nel nostro Paese. Dico “ancora una volta”, giacchè questo esercizio valutativo e predittivo è divenuto una consuetudine periodica, a dispetto della circostanza che le notizie e le previsioni che si possono esprimere, da tempo, non rechino di certo elementi informativi particolarmente esaltanti.
Da qualche stagione a questa parte, in effetti, l’analisi del realizzato pone in evidenza una sostanziale staticità del comparto, nel suo complesso, dopo l’impennata di adesioni, causata, nel 2007, dall’operazione “conferimento del TFR ai fondi pensione”. Non si intravvedono, poi, ragioni che consentano di formulare ipotesi di un prossimo significativo sviluppo, cioè di un’inversione di tendenza, in direzione di una decisa espansione, in coerenza con quelle che, per converso, si palesano alla stregua di crescenti ed oggettive necessità di integrazione quantitativa dei futuri assegni pensionistici di base. Ciò, al fine di mantenere un accettabilmente adeguato “tasso di sostituzione”, rispetto al reddito fruito al cessare dell’attività di lavoro, nel corso di una vecchiaia con prospettive di sempre maggiore durata.
I piani di previdenza complementare, realizzati con i diversi strumenti contemplati dall’ordinamento di settore – fondi preesistenti, nuovi fondi negoziali, fondi aperti, PIP di prima e di seconda generazione – continuano a riguardare, al 30 giugno scorso, secondo i dati statistici rilasciati dalla COVIP, una popolazione di poco meno di 5,2 milioni di soggetti, con una presenza meramente “di testimonianza” – qualche decina di migliaia di soggetti appartenenti al comparto scuola – dei dipendenti pubblici, un peso di lavoratori subordinati privati di quasi 3,8 milioni e circa 1,4 milioni di posizioni riconducibili al lavoro autonomo e libero professionale. Tra gli strumenti utilizzati, solamente i PIP di seconda generazione appaiono in costante progressiva diffusione, avendo superato di slancio, tra il marzo e il giugno scorso, l’asticella del milione di contratti, oltre il 60% dei quali relativi a lavoratori dipendenti. In crescita fisiologica appaiono gli accantonamenti per prestazioni, spinti verso l’alto sia dall’incidenza specifica del TFR, che da solo vale circa 7 punti percentuali del reddito di ciascun lavoratore dipendente – cioè una mensilità stipendiale – sia dai recuperi di valore fatti segnare dagli stock, pur nella persistente accentuata volatilità, dei mercati finanziari. Al 30 giugno scorso le riserve accumulate ammontavano a circa 75,7 miliardi di euro, il 3,7% in più, rispetto al 31 dicembre dell’anno decorso.
Il quadro tracciato, se certo di per sé non negativo, appare comunque assai al di sotto delle aspettative coltivate nel recente passato e, soprattutto, delle necessità sociali prospettiche del Paese. Rispetto a queste ultime, l’insufficienza dell’attuale contesto risulta di maggior evidenza, ove si consideri che, oltre alla già segnalata meramente simbolica presenza, tra i titolari di piani previdenziali, degli impiegati pubblici, tra i dipendenti del settore privato e tra i lavoratori autonomi, i giovani sono ancora fortemente latitanti e molte delle posizioni individuali, quando non sostenute da un conferimento di peso qual è l’intiero TFR, sono annualmente incrementate da apporti contributivi, a valere sul reddito individuale, assai inferiori alla soglia del 10%. A prescindere dai modesti ambiti, inopportunamente fissati in valore assoluto, della deducibilità fiscale della contribuzione, un versamento la cui percentuale sia a due cifre va, infatti, considerata una misura indispensabile di finanziamento, per la realizzazione di un serio ed efficace piano di previdenza complementare.
La situazione in precedenza delineata non sembra destinata a modificarsi a breve, in conseguenza di pur ipotizzabili – ed auspicabili – interventi di carattere legislativo, che impongano una qualche forma di obbligatorietà di una copertura di carattere previdenziale complementare e migliorino il profilo della deducibilità fiscale degli apporti contributivi. Le perduranti incertezze delle prospettive economiche ed il peso del debito pubblico paiono ostare ad interventi sul regime tributario. Le convulsioni del quadro politico, le difficoltà intrinseche ad una scelta normativa così forte qual è l’obbligatorietà, sia pure di per sé ben giustificabile, inducono a ritenere che anche la disciplina “civilistica” di settore, medio termine, rimarrà invariata e, quindi, incentrata sulla volontarietà di adesione individuale ai piani pensionistici complementari. Sarebbe già un enorme passo avanti se almeno il legislatore imponesse, ai cittadini di età inferiore ai 60/65 anni e superiore ai 20/25, un obbligo di contrarre una sia pur minima copertura di LTC, seguendo lo schema utilizzato per la RC auto: dovere di attivare la garanzia, libertà di scegliere la compagnia con cui realizzarla.
Perdurando, quindi, il regime di libertà di adesione alla previdenza complementare, occorrerà moltiplicare gli sforzi di sensibilizzazione dell’ampio bacino di cittadini ancora privi di coperture di secondo pilastro, muovendo da una chiara e capillare informativa individuale circa il (modesto) livello di tasso di sostituzione che in futuro potranno garantire gli assegni pensionistici di base. A questo sforzo di educazione previdenziale diffusa dovranno sinergicamente concorrere l’autorità pubblica, gli operatori del mercato, i mezzi di informazione, i fondi pensione.
In tale ottica promozionale per il settore, sono lieto di segnalare, en passant, – vestendo il cappello di Presidente di Assoprevidenza – che l’Associazione non mancherà di offrire, a breve, un proprio contributo, pur nell’estrema modestia delle disponibilità economiche e di struttura organizzativa che la connotano. Ricorrendo, infatti, nel 2011, il ventennale della costituzione formale di Assoprevidenza quale centro tecnico nazionale di previdenza e assistenza complementari, da sempre rigorosamente no profit, saranno organizzati un ventaglio di eventi, con cadenza mensile, per lo più dedicati alla previdenza complementare (l’altro tema chiave sarà, com’è ovvio, l’assistenza sanitaria integrativa).
Da ultimo, è interessante segnalare come, dopo un ampio ed in qualche misura travagliato dibattito in ambito sindacale, piattaforme di rinnovo di contratti collettivi di taluni settori rechino la richiesta dell’apertura di una posizione previdenziale complementare, presso il fondo negoziale di riferimento, per ciascun lavoratore destinatario del CCNL. Siffatta posizione pensionistica individuale sarebbe alimentata dal solo contributo datoriale nella misura contrattualmente prevista, ferma restando la facoltà di ogni lavoratore di avviare – a mio avviso, dove meglio ritenga – un piano di previdenza complementare finanziato dal TFR e dall’apporto contributivo posto a suo carico, così come previsto dal d.lgs. n. 252/2005.
Non sono un tecnico delle relazioni industriali, ma dubito – sperando, ovviamente, di sbagliare – che l’accennata richiesta sindacale troverà accoglimento. Il fatto che sia stata formulata mi sembra, tuttavia, un utile passo avanti dell’auspicato processo di superamento degli schemi, eccessivamente rigidi, che tuttora caratterizzano la normativa di settore e di taluni ideologismi, frutto di storici condizionamenti sindacali, che ancora essa reca.
Sotto il profilo del superamento di schemi normativi anelastici e di prassi di settore parimenti ingessate, sarebbe importante avviare, quanto prima, anche un serio discorso sulla tematica delle rendite, che tuttora appare questione centrale del settore, ancora ampiamente in ombra.