Stop al pareggio di bilancio ma per ridurre le imposte
01 Giugno 2012
La proposta di Renato Brunetta di non effettuare nuove manovre per raggiungere a tutti i costi il pareggio nel 2013 e di non caricare gli italiani di altre tasse è sacrosanta. L’idea che il corpo economico si presti a donazioni di sangue continue tramite i tributi e non si ripieghi su se stesso è assurda. E d’altra parte, il taglio delle spese che Giarda ha teorizzato, non può attuarlo, essendo ministro dei Rapporti con il Parlamento e non del Tesoro.
E non sembra comunque che questo governo lo voglia attuare in misura rilevante. Brunetta lo ammette, a denti stretti, e da qui deriva la sua tesi per cui questo taglio, che va comunque fatto, non può bastare per far quadrare il bilancio nel 2012 e per rilanciare gli investimenti pubblici e suggerisce di devolverlo a questi. Invece io sostengo che i soldi che il governo deve limare dalla spesa pubblica devono andare a ridurre gli oneri fiscali eccessivi, per ridare fiato all’economia.
La proposta del segretario del Pdl che l’imposta sulla prima casa sia transitoria mi pare che rientri fra questi obbiettivi prioritari. Dato che tale tributo rende al massimo 4 miliardi annui, si taglino 4 miliardi di spese per finanziarne l’abrogazione.
Prevedo due obiezioni: una di Brunetta che mi chiederà se io voglio rinunciare alla politica di rilancio della crescita economica con gli investimenti azionati dalla mano pubblica e un’altra dei rigoristi montiani, che chiederanno a Brunetta e a me, con quale faccia noi possiamo presentarci ai mercati derogando alla regola del pareggio nel 2013. Anticipo che la riposta di Brunetta si trova, per implicito, nella sua proposta, che è quella di fare investimenti pubblici.
Questi non fanno parte del disavanzo di esercizio del bilancio pubblico, ma del disavanzo del conto dei capitali e quindi non sono indice di spensieratezza, ma di serietà perché servono a combattere la recessione, migliorare il Pil, ossia il prodotto lordo e pertanto ad attenuare il rapporto fra il debito pubblico e il Pil, aumentando il Pil. Invece a me si può chiedere da parte dei rigoristi montiani se io credo che riducendo le imposte ci sia un aumento del Pil tale da far recuperare automaticamente il gettito così perduto, ossia credo nella magia della curva di Laffer.
La risposta è che il recupero avviene man mano. E comunque sia a me che a Brunetta possono domandare come ce la caviamo con il fatto che, non pareggiando il bilancio delle entrate e delle spese pubbliche nel 2013, ma nel 2014, diamo luogo nel 2013 a un aumento del debito pubblico, che i mercati non si aspettavano e che, presumibilmente, non gradiscono.
La risposta però c’è. Si tratta di fare ricorso a entrate straordinarie su cui l’Europa non può storcere il naso e ad alienazioni patrimoniali di beni pubblici male utilizzati e di quote di imprese pubbliche. L’accordo fra l’Italia e la Svizzera sulla tassazione dei capitali italiani in Svizzera, sul modello già attuato dalla Germania e dal Regno Unito, secondo calcoli attendibili può dare più di 20 miliardi una tantum e un flusso annuo di qualche miliardo. Come si nota esso potrebbe servire a tappare un buco del bilancio di 1,3 punti di Pil.
Qualche miliardo si può ricavare, senza molte complicazioni, dalle alienazioni patrimoniali.
Dunque è possibile pareggiare il bilancio fra entrate e spese pubbliche senza ricorrere a nuove tasse ma ricorrendo a misure di finanza straordinaria, con entrate una tantum,che l’Europa non può criticare e con privatizzazioni che snelliscono l’economia pubblica e destinare la limatura delle spese di qualche miliardo all’eliminazione dell’Ici sulla prima casa.
Quanto agli investimenti per rilanciare l’economia essi possono essere fatti in larga misura mobilitando risorse del mercato e fondi europei, sia di quelli di spesa pubblica che noi non riusciamo a spendere sia del credito della Bei, la Banca europea degli investimenti, che noi non utilizziamo e con i soldi della Cassa depositi e prestiti che adesso compra dall’Eni il 28 per cento circa di Snam Rete Gas spendendo 3,5 miliardi di soldi pubblici.
Questa non è una privatizzazione ma una statalizzazione, in quanto la Cassa depositi e prestiti è posseduta in maggioranza dallo Stato e per una minoranza da grandi banche, e non è quotata in Borsa mentre nell’Eni che è quotato in borsa, lo Stato ha una quota di minoranza.
Tratto da Il Giornale