Storia controcorrente della donna, dalla tirannide domestica alla velina in Tv

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Storia controcorrente della donna, dalla tirannide domestica alla velina in Tv

19 Giugno 2009

Non è senza significato che nella Francia dell’800, una parte consistente della democrazia sociale – v. le polemiche antifemministe di Pierre-Joseph Proudhon – rimanga su posizioni fortemente critiche, sotto l’influenza di Jean-Jacques Rousseau e dei giacobini. Anche in questa preclusione ‘c’è una logica’. Il prerequisito funzionale della ‘società aperta’, infatti, è il mercato, la dimensione della Gesellschaft, fondata sul principio di prestazione (‘do ut des’), mentre il democratismo puro (non liberale) di Rousseau rimane immerso nella dimensione comunitaria – la Gemeinschaft – ovvero in un orizzonte solidaristico in cui la metafora organicistica della famiglia è tutta svolta sul piano ‘orizzontale’ – la fraternità, l’eguaglianza tra fratelli (di contro al piano ‘verticale’del tradizionalismo classico – il pater familias e i rapporti di gerarchia tra figli e genitori e tra il padre-re e la madre-ministro, per riprendere il linguaggio de La Législation primitive considérée par les seules lumières de la raison, 1802, del visconte Louis de Bonald). L’eguaglianza dei sessi appariva a quanti la criticavano da sinistra il ritorno alla guerra di tutti contro tutti innescata dall’individualismo – in quanto indifferenziati gli esseri umani diventano tutti eguali – il trionfo della ‘quantità’, la prefigurazione di una società atomistica in cui sarebbero scomparsi, con i legami naturali, anche i vincoli consuetudinari che garantiscono all’uomo moderno sicurezza e protezione sociale.

Sarà la costruzione dello stato nazionale, in Italia, a riportare sulla scena politica le rivendicazioni delle donne. Giuseppe Mazzini, Jessie White Mario, Giorgina Craufurd Saffi, Marianna Bacinetti Florenzi Waddington, Cristina di Belgioso, collegano, con forza, il riscatto della donna al riscatto della patria in un unico processo di liberazione – dallo straniero e dalla tirannide domestica. In una società come quella italiana preunitaria in gran parte indifferente, se non ostile, ai moti di indipendenza – il Risorgimento, si disse poi , fu opera di una “minoranza eroica” – le donne più colte e più sensibili, entrando nelle ‘cospirazioni’ e nei circoli non conformisti, aprendo i salotti alle ‘minoranze eroiche’e talora mettendo a loro disposizione rifugi sicuri e denari, acquisivano il biglietto d’ingresso nella nuova arena politica. E’ vero che lo Stato sorto nel 1861, ancora una volta le avrebbe poi ricacciate fuori ma tale espulsione rientrava nel disegno oggettivo degli eventi: la comunità politica ancora in fasce sceglieva la via della ‘stabilità’, del compromesso con i poteri forti – i notabili, la Chiesa, le vecchie borghesie cittadine – in quanto garanti del primo dovere (quello, si potrebbe dire, hobbesiano) che incombe ai governi, il mantenimento dell’ordine, il rispetto della legge. Una ‘base sociale’ più ampia, almeno nei primi decenni dell’Italia unita, avrebbe innescato richieste per il cui soddisfacimento mancavano le risorse necessarie e creato un clima politico continuamente teso ed effervescente, che oltre tutto avrebbe preoccupato non poco le potenze conservatrici europee. Il suffragio politico venne drasticamente ristretto – dopo l’euforia dei plebisciti – e le donne non solo ne vennero escluse, a qualsiasi classe appartenessero, ma videro anche le loro rivendicazioni in fatto di diritti civili misconosciute, più di quanto non avvenisse nel detestato impero asburgico.

Nel grande cantiere delle penisola quasi del tutto unificata, non furono poche, tuttavia, le femministe impegnate in opere assistenziali, in progetti di riforma, in attività pedagogiche ma le ‘attrici sociali’ stentavano a diventare ‘attrici politiche’. “ Quelle poche voci femminili – aveva malinconicamente rilevato Cristina di Belgioioso – che s’innalzano chiedendo dagli uomini il riconoscimento formale della loro eguaglianza hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi”. Le difficoltà erano legate, per così dire, a contingenze non facilmente superabili. La solidarietà tra gli operai nasceva dal fatto di lavorare negli stessi capannoni industriali, dalla consuetudine quotidiana, da condizioni oggettive che li accomunavano ai loro immediati compagni di lavoro e agli altri proletari che ne condividevano il livello di vita e gli stentati salari; la solidarietà – assai minore – tra i contadini nasceva dalla dura vita dei campi, dalle diverse rivendicazioni di mezzadri, coloni e braccianti. Nel caso delle donne, le barriere di classe rendevano assai più debole il ‘potenziale di intesa per un’azione collettiva’. Era impensabile, infatti, che una dama aristocratica, un’agiata borghese, una bottegaia e una contadina si ritrovassero insieme e collaborassero in un movimento politico. Le classiche servitù legate alla condizione femminile – il parto l’allattamento, la cura dei neonati, da un lato, la cucina e gli altri lavori domestici, dall’altro – pesavano in modo diverso per chi abitava in una villa o in una degradata periferia urbana. Il peso dell’autorità maritale – il naturale ‘dispotismo maschile’ – dal canto suo, incideva diversamente sulle singole donne, anche indipendentemente dall’appartenenza di classe o di ceto: in basso, ovviamente, i rapporti erano più duri – anche per una sorta di rivalsa, all’interno delle mura domestiche, di chi, al di fuori non esercitava alcun potere – ma l’agiatezza, com’è facile intuire, poteva renderli più sopportabili.

La condicio sine qua non di un nuovo assalto alle fortezze del privilegio maschile era la nascita dei partiti di massa che, in qualche modo, avrebbero involgarito la competizione per il potere – come denunciavano i ‘laudatores temporis acti’spaventati dalle pulsioni populistiche – ma che, senza dubbio, avrebbero contribuito, in modo decisivo, a indebolire le divisioni sociali e a radicare nei costumi l’idea di uguaglianza. Nel partito di massa – o meglio nel partito che si rivolge alle masse – l’avvocato e il droghiere, l’operaio e il contadino, si ritrovano a contatto di gomito e, anche se non si danno del tu, si sentono impegnati nelle stesse battaglie, in guerra contro gli stessi nemici ideologici. Le organizzazioni socialiste prima, e in seguito anche quelle cattoliche, saranno determinanti nel porre le premesse per l’avvicinamento e la collaborazione delle donne: a renderle eguali non sarà un fatto positivo, la comune ‘natura’ (vera o presunta che sia), ma la coscienza di una comune discriminazione, di una subordinazione avvertita come contraria all’etica e alla libertà dei moderni. Tale coscienza se, in teoria, non è impensabile al di fuori dei partiti moderni – come dimostra efficacemente l’antologia con la rassegna di ‘precursori’ – , in pratica, trova poi nei partiti moderni le condizioni per emergere con consapevole determinazione.

Le analogie hanno una forza irresistibile: sono i datori di lavoro, i ‘capitalisti’, che con la loro utilizzazione a basso costo della manodopera accendono in questa la coscienza dei suoi diritti conculcati; sono i maschi che, con i loro comportamenti egoistici e la loro “tirannide familiare”, creano il soggetto sociale ‘donna’ e risvegliano in essa il senso della giustizia negata. Non meraviglia che la battaglia femminista venga ripresa, in Germania, in Francia, in Italia, nell’ambito della subcultura socialista: contro la società borghese occorre mobilitare tutti gli sfruttati, avvalendosi di una dottrina onnicomprensiva che ne colleghi le diverse istanze mostrandole come unite da un comune filo rosso. Di qui l’importanza, almeno nella storia d’Italia, di Anna Kuliscioff, la compagna di Filippo Turati, che risolleva da terra la bandiera del femminismo risorgimentale e si batte, generosamente, per il superamento definitivo delle disuguaglianze di genere. Sui tempi lunghissimi della storia, questa battaglia non renderà più vicino l’avvento della società socialista ma darà un impulso decisivo al processo di democratizzazione che, soprattutto grazie ai partiti di massa della Resistenza italiana – comunisti, socialisti, cattolici – porterà al suffragio universale maschile e femminile e alla riforma radicale dei codici civili (1963).

 Come già il mercato economico, però, il ‘mercato politico’ da solo non basta. Le benemerenze acquisite nel corso del processo riformatore si traducono in diritti reali di cittadinanza solo in un sistema retto dall’ economia di mercato. Uno stato collettivista fondato sul marx-leninismo e quindi portato a realizzare la più completa parità tra i sessi – anche in virtù della componente illuministico-materialistica, antitradizionale e laicistica, della sua ideologia – esibirà, a differenza delle società capitalistiche, donne impiegate in tutti i ruoli sociali (soprattutto i più umili), ma a ben guardare, col passare del tempo, la raggiunta emancipazione varrà sempre meno. E inoltre le ristrettezze economiche e il drastico abbassamento del tenore di vita delle famiglie richiesti dalla ‘costruzione del socialismo’ finiranno, se non col riportare in casa le donne, col ridurle a mere ausiliarie del grande esercito proletario in marcia. Agli anni dell’effervescenza rivoluzionaria subentrano allora quelli di un neo-puritanesimo, in cui i valori proto borghesi – la fedeltà coniugale, un’esistenza onorata, il modello di uomo (e di donna) tutto “lavoro, casa e famiglia” – verranno riguardati come “valori sani” e contrapposti al libertinismo, pericoloso contrassegno dell’individualismo e dell’egoismo della società borghese. Il maschio ‘farfallone amoroso’ è un essere inaffidabile che non serve alla causa della rivoluzione ed è di cattivo esempio ad avvenuta conquista dello Stato, quando ci si deve rimboccare le maniche e lavorare di buona lena. La parità dei sessi, che si realizza nel modello ‘caserma’, senza la libertà di disporre della propria vita, di scegliersi il lavoro più adatto, di competere per un impiego più remunerativo, insomma di raggiungere l’agiatezza economica, diventa, in tal modo, ben poca cosa. Non solo. La diffusa penuria può far riemergere fenomeni, come la prostituzione (soprattutto in vista dei ricchi turisti provenienti dai paesi capitalisti), che, nella propaganda ufficiale, sono legati al capitalismo e al suo bieco sfruttamento delle classi più diseredate. Se la ricchezza può – ma non necessariamente sortisce l’effetto di – alimentare i desideri e favorire il vizio e la corruzione, sicuramente l’impoverimento di una società che abbia conosciuto almeno taluni aspetti della modernizzazione (o che, pur avendo conservato costumi e istituti tribali sia esposta alle sue ‘tentazioni’), produce un degrado morale da cui è tanto più difficile sottrarsi, risultando ormai preclusa la via del ritorno all’antico, e che vedrà come prima vittima la donna.

 Sono considerazioni che difficilmente convinceranno le femministe differenzialiste – quelle che alla natura pacifica della donna, radicalmente contrapposta alla natura belligena e tirannica dell’uomo, affidano rivoluzioni ecofemministe in grado di azzerare la storia fatta dai maschi, col suo carico di violenza e di morte, ma che, forse, potrebbero suggerire più realistiche direzioni di ricerca al femminismo liberale, alla Stuart Mill, al quale si richiamano sostanzialmente le due curatrici di Per filo e per segno. Al di là di tutti i barocchismi del concetto, i diritti dell’”altra metà del cielo” sono garantiti solo dal combinato disposto della democrazia politica e dell’economia di mercato – due cose, peraltro, che, alla lunga, non possono stare l’una senza l’altra. Una storia delle donne che si rifiutasse di prenderne atto pagherebbe tale rifiuto con la ricaduta nella metafisica del genere o con una saggistica tanto ambiziosa, sotto il profilo filosofico, quanto evasiva e inconcludente nella spiegazione della ‘realtà effettuale’. Una saggistica fatalmente condannata ad oscillare tra il discorso sulla decadenza (presente) e la prefigurazione di una nuova civiltà (futura) in grado, come già il proletariato marxiano, di risvegliare il mondo dai sonni della ragione e di emanciparlo dallo sfruttamento economico – maschile e capitalistico a un tempo – attraverso la propria esaltante autoliberazione.