Storia curiosa e un po’ nostalgica dell’anarchismo ottocentesco
28 Febbraio 2010
All’Italia del tardo Ottocento era riconosciuto almeno un primato internazionale: i più famosi regicidi dell’epoca provenivano tutti dalla Penisola. Anarchico: era questa l’identità dei più temibili criminali politici della "Belle epoque". L’anarchismo, fiorito in tutta Europa in corrispondenza con l’inarrestabile ascesa della borghesia, ebbe una deriva "terroristica" negli anni Ottanta, quando le sinistre parole di Kropotkin, che aveva incitato ad una "rivolta permanente con il discorso, con lo scritto, con il pugnale, con il fucile, con la dinamite", vennero spesso prese alla lettera.
Se in Spagna gli anarchici ebbero come principale bersaglio i preti e in Francia a saltare sotto i colpi della dinamite erano brasserie e caffè frequentati da rentiers, l’anarchismo italiano aveva invece tratti del tutto particolari, ben tratteggiati da Giovanni Ansaldo nei tanti scritti che il famoso giornalista dedicò agli "arrabbiati" dell’Ottocento. Alcuni di quegli articoli escono oggi raccolti in un agile e divertente volumetto (Giovanni Ansaldo, "Gli anarchici della Belle Epoque", Le Lettere, 2010, pp. 107, euro 9,50) uscito nella collana della rivista "Nuova storia contemporanea" al cui direttore Francesco Perfetti si deve anche l’introduzione.
Cosa spinse un noto conservatore come Ansaldo a dedicare così tanta attenzione agli anarchici tracciandone un profilo per nulla antipatizzante o venato da moralistico disprezzo? Intendiamoci: il giornalista genovese, se avesse vissuto nell’età della dinamite anarchica, avrebbe certamente parteggiato per quei commissari di polizia pronti a riportare con ogni mezzo l’ordine turbato. Tantomeno, egli fa parte di quella schiera di intellettuali da salotto sempre solleciti nello sponsorizzare le più disparate (e disperate) cause rivoluzionarie, quelli protagonisti dello spassoso pamphlet di Tom Wolfe "Radical Chic".
Per Ansaldo gli anarchici erano una componente essenziale dell’età della borghesia, il necessario coté antagonista ad una classe prossima a trionfare e colma di fiducia in se stessa e nell’avvenire. Quelli italiani, poi, recavano con sé qualcosa di diverso, forse di più antico e di tipicamente autoctono: "i nostri anarchici erano – infatti – di un altro legno; un legno più nobile. Essi non ce l’avevano con i proprietari di case, ce l’avevano con i grandi della terra. Non tiravano di sorpresa il collo ai reddituari o ai contadini danarosi; miravano ad abbattere il re in mezzo agli applausi della folla, in mezzo ai suoi soldati, in mezzo alla testimonianza della sua potenza".
L’anarchico italiano aveva fatto propria la tradizione nazionale del tirannicidio, omicidio nobilitato dal fatto che a cader vittima del pugnale era un liberticida, un sovrano macchiatosi della colpa di aver turbato l’armonia sociale. E poi nell’anarchico italiano si ritrovavano alcuni tratti distintivi del carattere italiano come la tendenza a farsi giustizia da soli. Ansaldo era pronto ad ammettere, in fondo che "la passione che li sospinse all’attentato, ha pure, in se stessa, qualcosa che li salva dall’ignominia, che conferisce anzi a essi un alone di cupa grandezza. Sono come i sonnambuli solenni e feroci della nostra storia, che rilevano di un colpo le carenze e le debolezze di quel grande sogno che fu il Risorgimento".
Erano soprattutto i figli delle campagne e del proletariato da poco inurbato ad alimentare le fila dei "rivoluzionari" pronti ad armarsi; le giovani generazioni borghesi, disposte a negare i valori, gli agi e l’ottimismo della loro stessa classe, preferivano in genere esercitare un anarchismo "di carta", relegato a trattatelli e diari. Mentre gli anarchici descritti da Ansaldo avevano conosciuto le umiliazioni proletarie, la repressione politica, il dolore dell’emigrazione, finché qualche cattivo maestro non era stato in grado di incantarli ispirando loro sogni di palingenesi sociale.
Dalle campagne provenivano i due più celebri regicidi dell’epoca: quel Sante Caserio da Motta Visconti in provincia di Milano, figlio di contadini, fornaio, espatriato nella Francia meridionale nel 1893, il quale con un pugnale trafisse a Lione, il 24 giugno 1894, il cuore del presidente francese Sadi Carnot al grido di "Viva l’Anarchia!". Gaetano Bresci era invece figlio di mezzadri del pratese, aveva lavorato nella bottega di un calzolaio, si era fatto travolgere dalle idee anarchiche che gli erano costate la condanna durante la repressione crispina del 1892-93. Emigrato negli Stati Uniti nel 1897, frequentò i circoli anarchici italiani, particolarmente numerosi nel New Jersey.
Fu in queste "conventicole" che maturò la decisione di vendicare i morti di Milano del 1898; Bava Beccaris, invece che essere rimosso dal suo incarico era stato "coperto" da un telegramma giustificativo di Umberto I che lo aveva anche onorato di un seggio senatoriale. Visto dall’America "tra il rovello dell’esilio, Umberto assunse, per Bresci, sembianze di tiranno; e l’antica fede italiana nella moralità del tirannicidio si congiunse, nell’animo del Bresci, alle teorie anarchiche". Scelse come giorno propizio la festa ginnica del 29 luglio nel parco della Villa Reale di Monza, consapevole che l’impavido "re buono", insofferente a scorte e schieramenti di carabinieri, sarebbe stato un facile bersaglio. Non si era sbagliato: il re cadde vittima del suo revolver al terzo colpo scompaginando i destini di casa Savoia e, forse, della stessa Italia.
In fondo, sembra dire Ansaldo, nelle vicende degli anarchici c’è tutto il fascino di un mondo ormai sepolto in cui la più energica sovversione andava a braccetto con quei codici di comportamento ottocentesco verso i quali provare un po’ di rimpianto: "forse, chi avesse potuto partecipare ai picnic anarchici degli Stati Uniti, avrebbe potuto vedervi ancora oneste e probe costumanze del tempo in cui udii per la prima volta parlare di picnic. Là, in quelle scampagnate, doveva vigere ancora il salutare costume, secondo cui meritano d’essere i più giovani e validi, e non gli anziani, coloro che portano le ceste con le provvigioni e i fiaschi di vino. Là, al momento di sedersi sull’erba, o a tavola, si doveva fare ancora attenzione a dare il posto migliore, all’ombra, al compagno più vecchio, a quello che ha sofferto".