Storia del Cai e dell’Italia che credeva di essere una patria e una nazione
14 Febbraio 2010
Accade sempre più di frequente che la storiografia indaghi il macrocosmo – la vita politica e sociale di un paese, di un’epoca – avvalendosi del microcosmo, cioè di un soggetto "particolare" e specifico attraverso il quale leggere vicende più generali. Rientra in questa tendenza storiografica il recente volume che Stefano Morosini, giovane studioso, ha dedicato al Club alpino italiano (Sulle vette della patria. Politica, guerra e nazione nel Club alpino italiano 1863-1922, FrancoAngeli, pp. 259, euro 27).
Nonostante si tratti di una lettura specialistica, l’autore è riuscito nel proposito di raccontare e analizzare uno spaccato della vita politica italiana a cavallo tra Otto e Novecento attraverso la lente di uno dei suoi più prestigiosi sodalizi, quello appunto degli alpinisti. Nulla a che vedere con gli appassionati di montagna dei giorni nostri: quando il CAI venne fondato nel 1863, l’associazione era formata dal gotha della classe dirigente nazionale. Nacque per volontà di Quintino Sella, una di quelle tipiche personalità poliedriche che contribuirono alla formazione dell’Italia unita: tra i leader della destra cavouriana, storico ministro delle Finanze che raggiunse il pareggio di bilancio per i conti pubblici, egli apparteneva ad una dinastia industriale biellese, aveva studiato geologia nella prestigiosa Ecole des Mines di Parigi e si dilettava di risalite in montagna. A lui si deve infatti la "conquista" del Monviso, aspra cima di confine dalla quale scaturiscono le acque del Po. La memorabile scalata dette il via alla fondazione del club alpino, ovviamente ispirato all’omologo londinese nato nel 1857 che rappresentò l’esempio per tutti i successivi cresciuti a Berna o a Torino, a Monaco o Vienna. Gli inglesi avevano avuto un ruolo determinante nell’invenzione dell’alpinismo: dalla prima ascensione del Monte Bianco nel 1786, furono soprattutto i sudditi di sua maestà britannica a cimentarsi con le vette alpine, spinti dalla ricerca di "affermazione personale, dall’anelito a conquistare un nuovo spazio e a sancire il proprio nome accanto a quello di una montagna", ma anche da propositi scientifici.
Nella seconda metà dell’Ottocento all’alpinismo pionieristico ed individuale andò sostituendosi quello dei primi club che "si definì come pratica corale in cui differenti istanze, individuali e collettive, si sovrapposero". Pertanto "le Alpi persero l’alone scientifico che le aveva ammantate fino a poco tempo prima e assursero da un lato a terreno di gioco per una forma avventurosa e ricreativa di alpinismo e dall’altro a regione di confine da presidiare, contendere e difendere". E sebbene nei club alpinistici vigessero le tradizionali regole dei sodalizi per soli gentleman, ai quali accedere per cooptazione e nei quali scambiarsi informazioni ed impressioni esclusive, le spedizioni in montagna, in particolar modo in Italia, in Germania o in Francia, assumevano il significato simbolico di scoperta e demarcazione del territorio nazionale. Conquistare per primi una cima e piantarvi la bandiera della patria divenne un gesto rituale e ambito come era accaduto per l’ascensione al Cervino del 1865, quando a Valtournanche si festeggiò non appena il drappo italiano campeggiò sulla vetta di ponente del monte.
Il CAI si diffuse ben presto su tutto il territorio nazionale facendo proseliti soprattutto in quella borghesia medio-alta fedele ai valori risorgimentali e ad una concezione della nazione di stampo mazziniano. Per i soci, le escursioni alpine rappresentavano un’opportunità per migliorare se stessi cimentandosi con uno sport che dava spazio all’affermazione personale e che offriva occasioni per una rigenerazione etica e fisica. L’associazione si proponeva inoltre, per mezzo di bollettini e pubblicazioni, di far conoscere il patrimonio geografico e naturalistico nazionale. Agli intenti pedagogici si sommarono ben presto quelli politici: le Alpi orientali, infatti, testimoniavano l’incompiutezza del processo di unificazione nazionale che aveva lasciato Trento e Trieste nelle mani dell’Impero austro-ungarico. L’irredentismo democratico-risorgimentale, che aveva permeato anche il Club Alpino avrebbe lasciato il posto, ad inizi Novecento, ai nuovi fermenti nazionalistici che, oltre a dare spazio al desiderio di ricongiungere alla madrepatria le popolazioni italofone, auspicava un’espansione guerresca dell’Italia al di là dei suoi confini naturali. Le vette divennero perciò terreno di scontro tra alpinisti italiani e austro-tedeschi: ogni nuovo rifugio, ogni nuovo capanno, ogni nuovo sentiero rappresentava la conquista simbolica di uno spazio sottratto al nemico o la riaffermazione del proprio confine nazionale.
Allo scoppio della Grande Guerra il CAI si pronunciò a favore dell’intervento: le tre anime dell’associazione, quella risorgimentale, quella nazionalista e quella giovanile vennero contagiate dal clima oltranzista dell’epoca e videro nel conflitto il mezzo naturale attraverso il quale accedere alle terre irredente. L’associazione si segnalò per il suo volontarismo istituzionale che, in alcuni casi, ne fece un supporto fondamentale per l’operato delle truppe italiane di stanza sul confine con l’Austria. Ma l’impegno del Club sarebbe proseguito anche a conflitto terminato, in particolare nel sollecitare la presa dei rifugi costruiti dall’omologo austriaco in Trentino Alto-Adige e nella promozione di percorsi sui luoghi della Grande Guerra, contribuendo a quella retorica nazionalista da cui avrebbe tratto linfa il nascente fascismo.