Storia del popolo Kuna e di come ha resistito al multiculturalismo

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Storia del popolo Kuna e di come ha resistito al multiculturalismo

07 Febbraio 2010

Ogni volta che mi reco per qualche tempo in quel territorio sperduto, e per il momento ancora fuori dalle grandi rotte turistiche, che è il Kunayala, mi sorprende e mi dà anche molto da pensare l’insieme dei costumi, abitudini, usanze della popolazione india che lo abita.

Il territorio o meglio lo stato nello stato, appartiene a Panama, però la regione gode di una quasi completa autonomia e vive secondo consuetudini che questa etnia ha elaborato nei secoli. Compiendo un piccolo miracolo composto da fughe improvvise nell’intrico della foresta amazzonica, impennate d’orgoglio e periodi di mimesi quasi totale con la vegetazione e il paesaggio, i Kuna sono riusciti vanificare ogni tentativo di sottometterli, cominciando da quello iniziale dei Conquistadores.

I Kuna sono molto fieri e gelosi della propria identità culturale e della propria estraneità al mondo multietnico e spregiudicato che costituisce la base di partenza di qualsiasi nuovo insediamento. Rispetto al melting pot che si è formato a Panama, sono diffidenti e tengono le distanze. Anzi, hanno riaffermato la propria autonomia con una rivoluzione contro Panama che nel 1925, dopo vere e proprie stragi, ha condotto alla autonomia organizzativa e legislativa di cui, di fatto, oggi godono.

I Kuna si fanno un punto d’onore di conservare la purezza della “razza”: rarissimi i matrimoni misti. Forse anche perché è ancora vivo il ricordo della crudeltà con cui nel corso della rivoluzione avevano sistematicamente sterminato i “non Kuna”, compresi i bambini nati da unioni miste.

La regione, oltre che da una striscia di foresta amazzonica, che da Panama allunga le sue braccia fino alle falde della Colombia, è costituita da circa trecentoquaranta isole, isolette e isolotti corallini che sono quelli appunto, dove si può incontrare qualche presenza turistica, peraltro in notevole crescita.

Sono isole tranquille, dove il mare si alza poco anche se a volte l’aliseo soffia in modo impetuoso, protette ampiamente dalla barriera corallina che blocca al di là di un tratto consistente di mare, le bizze e le impennate dell’oceano Atlantico.

I Kuna abitano alcune isole, di fatto quelle più vicine agli insediamenti costieri, però le abitano a rotazione gruppi familiari che vi soggiornano dai tre ai sei mesi ciascuno. E’ il capo che decide la turnazione (anche se il motivo è quello di non parcellizzare le successioni ereditarie) e questo è un bene perché gli insediamenti abitativi vengono tenuti al meglio e perché così non dovrebbero verificarsi inurbamenti selvaggi. Questa espressione è decisamente inappropriata dato che si tratta sempre di agglomerati di capanne di paglia, ma il concetto è sicuramente sano.

Da quando ho cominciato a frequentare queste isole coralline, cinque anni circa, sono avvenuti grandi cambiamenti. Non solo visibili anche da lontano come i ripetitori o udibili come i generatori di corrente elettrica, ma anche cambiamenti silenziosi, oserei dire quasi striscianti e purtroppo inevitabili.

Per esempio si sono aperte alcune tiendas (pur sempre capanne) che fungono da negozi dove si possono trovare alcuni generi alimentari, un po’ di frutta, alcune bibite e non solo il pane che qualcuno, in varie isole preparava anche prima. Il pane kuna è modellato in forme strette e sottili, somiglia un po’ ai nostri panini all’olio e, se appena fatto è piacevole, leggermente abbrustolito è decisamente squisito.

Il panettiere del momento non è sottoposto a norme particolari: si dedica ad una attività, come a qualsiasi altra cosa, secondo l’estro e non è vincolato a nulla. I “panettieri” possono prendersi dei periodi per andare a trovare degli amici o recarsi a qualche fiesta (e le loro possono durare anche una settimana), possono farlo un giorno o un altro, possono non farlo…. Insomma massima libertà.

Quando il panettiere è latitante, forse un altro prenderà il suo posto o forse no, il pane non verrà preparato e nessuno si meraviglierà della faccenda. Gli altri si arrangeranno, magari si faranno il pane da soli. Sarà meno buono, ma così vanno le cose.

La loro alimentazione è molto semplice, riso e pesce, riso e pollo e gli uomini, come pescatori, sono veramente dei maestri. Non tornano mai senza preda e anche quando si aggirano verso sera nelle loro piccole e apparentemente instabili canoe (caiucchi), si rendono protagonisti di uno spettacolo incredibile: in piedi sulla prua con una lancia in mano aspettano che passi un pesce e quando lo hanno scorto, la loro lancia non perdona. Come facciano a calcolare evidentemente la velocità del pesce e la traiettoria giusta per infilzarlo, resta un mistero ma anche uno spettacolo incredibile che appena il cielo attenua i suoi brillanti colori, ci regala il sapore di un tempo lontano e di un mondo perduto.

Le donne nella società Kuna godono di una considerazione particolare gestiscono, amministrano, producono gli unici beni che finora sono stati oggetto di commercio: le molas. Mi verrebbe da dire che sono abilissime ricamatrici, ma in realtà usano una tecnica di intarsio tutta particolare che hanno affinato nei secoli.  Infatti, partendo probabilmente da una serie di ornamenti che in tempi lontanissimi eseguivano con i colori sulla nuda pelle, sono passate ad una tecnica complicata ma molto d’effetto. Sovrapponendo pezze di vari colori ed estraendo strisce diverse (che fermano con punti microscopici) attraverso opportuni tagli praticati sulla prima pezza che fa da legante, compongono motivi geometrici tipici della loro tradizione, ma anche motivi legati alla natura che li circonda, piante, animali, fino ad arrivare, e sono le molas più preziose, a vere e proprie scene e scenografie tratte dalle loro abitudini e dalla loro vita: la ricerca delle piante medicinali, gli interventi dei curanderos, i momenti topici della loro esistenza.

Non accettano facilmente lavori su commissione e comunque, se li accettano, si prendono tempi infiniti perché le loro giornate hanno dei ritmi che ormai noi comprendiamo molto poco.

Se si va in giro per i loro villaggi, si vedono molti bambini che scorrazzano allegramente o sono in braccio a madri giovanissime e ragazzi che giocano a pallone o a pallavolo come i ragazzi di tutto il mondo. Le ragazzine ad una temperatura tropicale, portano pesanti jeans e ho visto perfino degli stivali…

Il fatto è che due anni fa c’è stata la prima (donna) diplomata nelle scuole di Panama. La sua foto è appesa nelle pareti precarie di uno pseudo aeroporto dove atterrare e decollare è davvero un’avventura. Però c’è e significa qualcosa. Probabilmente i costumi subiranno una progressiva diluizione e i begli abiti e i brillanti colori saranno relegati nelle cerimonie ufficiali… Già ora solo le donne anziane li indossano: il contrasto salta agli occhi quando ci si ferma al piccolo aeroporto per aspettare il volo per Panama, dove le donne Kuna si recano periodicamente in gruppo per andare a fare compere. Le ragazze vestono come quelle di tutto il resto del mondo e parlano col telefonino e dimostrano una vivacità notevole.

D’altra parte guardano la televisione che porta dentro i loro cuori mondi impensabili, situazioni di vita differenti che farà nascere desideri nuovi e omologanti.

Il mondo è una pagina che si scrive in continuazione e niente può fermare, vorrei dire il progresso, ma in realtà penso davvero la contaminazione euro-pan-americana.

Peccato, perché nei vari anni duranti i quali, sempre con molto rispetto, ho osservato i Kuna e i loro costumi, c’è una realtà che mi ha dato da pensare.

Evidentemente le loro condizioni igieniche mi sono parse e mi paiono tuttora piuttosto precarie. La vita media è molto bassa e non c’è un posto in cui si vendano medicine tanto che, a volte, uomini e donne Kuna vengono a bussare alle barche per cercare tachipirine, colliri o pomate.

Certe malattie che da noi si possono tranquillamente curare, lì sono incurabili e certo non sarebbe male pensare di organizzare dei seri avamposti medici. Per dir la verità pensavo ad una sorta di imbarcazione attrezzata come pronto soccorso e farmacia ambulante che navigando tra le isole potesse portare ai Kuna qualche conforto.

E’ ancora nei sogni, ma potrebbe essere un’idea. Qualche volta mi è capitato di parlare con le donne che ti raccontano subito per esempio di aver difficoltà a reperire il latte per i bambini (ancora non ci sono frigoriferi), che vanno in giro per le barche a chiedere riso, farina, acqua dolce, biscotti e caramelle di cui sono ghiottissimi. Nelle isole quando le provviste sono finite, sono finite ma non c’è ansia. Qualcosa si fa lo stesso. I loro occhi non si incupiscono, non si fanno prendere dallo sconforto, aspettano con fiducia “manana” domani è un altro giorno e qualcosa succederà.

Prima che cali il buio ossia verso le diciassette, il capo del villaggio chiama le famiglie nella piazza e si raccontano, mi dicono, i fatti salienti della giornata trascorsa. Tutti sono attenti e guai a chi ciondola!

Anche questo fatto mi ha colpita: sarebbe come se alla fine di ogni giornata potessimo andare a parlare col sindaco per fargli sapere quello che va e quello che non va. Nemmeno nei cartoni animati!

Certo che si tratta di una società molto imperfetta, che sta acquisendo senza passaggi intermedi una tecnologia avanzatissima ma che è stata costruita con grande rispetto per la persona nella sua integralità di corpo e di spirito. La società Kuna ha i suoi mali e i suoi malati ma non produce isterici o pazzi.

L’unica pecca o forse l’unico grave peccato di cui si macchiano i Kuna, è quello di bere a volte fuori misura ma non ho visto pazzi, gente con gli occhi assenti, con lo sguardo sfuggente, con quei guizzi inspiegabili che derivano da psicosi ormai così diffuse nella nostra società.

I Kuna hanno ormai accettato molte delle nostre diavolerie elettroniche e hanno anche qualche costruzione in muratura, ma loro continuano a vivere nelle capanne perché in quel clima il bungalow è quanto di meglio si possa inventare…probabilmente hanno già accettato internet e simili, (vicino alla scuola elementare della capitale che si trova nell’isola di Narganà, c’è un internet point che a volte, se si è fortunati funziona) ma si rifiutano di mutare i propri ritmi peculiari di vita, la propria scala di valori.

Se gli si commissiona una molas particolare, i tempi di esecuzione sono quelli che loro decidono, ossia lo fanno a tempo perso e a nulla valgono le possibili sollecitazioni.

Mi sono trovata a riflettere che loro forse sono carenti dal punto di vista della igiene fisica, ma mi pare che abbiano capito benissimo che esiste una igiene mentale senza la quale non ha senso vivere.

Nei paesi occidentali se una mattina non suona la sveglia c’è il panico: i figli fanno tardi a scuola, i genitori al lavoro e tutta la giornata subisce una specie di stortura temporale che accelera i battiti del cuore, il respiro, che aumenta le ansie.

Loro sicuramente hanno meno di tutto, dai generi alimentari all’igiene delle abitazioni e degli insediamenti, alle cure mediche ecc. ecc. ma hanno meno ansia e, per quanto ho potuto vedere, non conoscono la pazzia.

Nel nostro mondo, perfino i bambini vivono situazioni di disagio stressanti.

Fin dalla scuola materna vengono richiesti standard di risposte, standard di comportamenti mentre dovremmo riconoscer loro solo una graduale e serena presa di coscienza del mondo che li circonda…..

La stessa scuola elementare mette paura ai bambini, paura di non essere all’altezza, paura di essere meno degli altri. Il voto che talvolta viene esibito è un’arma a doppio taglio, premio e condanna e comunque, ogni bambino sa che la sua giornata è scandita da una serie di impegni inderogabili e irrinunciabili che si moltiplicheranno nel resto della sua vita e dentro i quali dovrà tentare di “sopravvivere”.

Mi ricordo che in seguito a certi esperimenti effettuati su cavie e topolini vari, era risultato un aumento dell’aggressività proporzionale alla diminuzione dello spazio destinato a ciascun animale.

Il gomito a gomito costringe ad agire sempre in difesa: in casa, in strada e nel lavoro. Che ci siano pesanti conseguenze della ferocia e della spietatezza del mondo così com’è ora, mi pare evidente dal disagio che traspare chiarissimamente da certi comportamenti privati e pubblici, dal numero di episodi di follia che monta pericolosamente.

Potrei dire come Popper che la nostra società è la migliore tra quelle che l’umanità ha prodotto finora e, ne sono convinta, ma il grande filosofo ha detto anche che è necessario riconoscere e correggere gli errori che facciamo se vogliamo migliorare.

Dovremmo riconoscere, per esempio, che tutto il nostro sofisticato mondo non tiene affatto conto della salute mentale delle persone.

Il lavoro è una specie di prigione dalla quale non abbiamo modo di scappare pena la fame e il bisogno e soprattutto, non lascia spazi sufficienti perché l’uomo possa dedicarsi ad altre attività se non come fuga estremamente temporanea che alla fine diventa stressante come il lavoro.

L’organizzazione della società dei Kuna è semplice, ma è chiaro che il problema del tempo personale non appartiene a questa etnia.

“Domani” è una indicazione di massima che può non significare davvero domani ma anche il prossimo mese e oltre.

La nostra civiltà che ha preteso di costruire un paradiso, di fatto ha costruito un inferno da cui sarà difficile uscire e dove non c’è pietà per nessuno.

I doveri sono incombenti, come i rumori della civiltà che ci martellano senza soluzione. I tempi della persona sono contratti al punto che da vero protagonista è diventata poco più che uno strumento. Prendersi del tempo per sé è un optional che soccombe dinanzi alla “ragion di lavoro”, più forte e cogente della “ragion di stato”.

La società dei Kuna è fortemente imperfetta, certo, ma da quella potremo almeno prendere le cose buone che difende tutt’ora anche se non so per quanto potrà reggere. La salute mentale è importante quanto quella fisica e per essa non valgono i successi professionali, le vite brillanti. Vale solo il tempo “nostro” che significa rispetto doveroso della complessità della persona, che vuol dire anche maggiore libertà non solo dal bisogno materiale, ma che è anche quella di respirare ogni tanto, con calma, nella silenziosa, ricca e variopinta diversità del mondo.

E infine, la grandezza di una civiltà non sta nell’arroccarsi sui valori della tradizione, pur fondamentale, ma nel saper correggere ed aggiustare un percorso sfuggito dalle mani, nel saper apprezzare quello che altre civiltà hanno colto nel rispetto della persona, senza il quale, ogni crescita non è che illusione pura.

“L’età chiedeva soprattutto uno stampo di gesso” scriveva Pound agli inizi del secolo scorso, per incitare uomini e artisti a liberarsi da quel busto e ad essere elasticamente tesi ad un mondo migliore.