Storia della delegittimazione politica dall’Ottocento a Berlusconi
27 Giugno 2010
Gli ultimi vent’anni di vita politica hanno abituato gli italiani a ritenere la delegittimazione dell’avversario come una caratteristica connaturata alla stessa competizione per il potere. Eppure, il termine delegittimazione ha un’origine recente: fa la sua comparsa nei dizionari a partire dagli anni Ottanta ma si afferma definitivamente durante Mani Pulite, quando i media si fecero allo stesso tempo cassa di risonanza e artefici di processi delegittimanti che portarono al crollo di quella “repubblica dei partiti” sorta dalle ceneri del fascismo e costruita sulle macerie della guerra. Se il concetto è nuovo, la pratica ha una sua storia: anche senza scomodare Carl Schmitt, teorico della coppia amico/nemico quale nucleo della politica in senso moderno, la delegittimazione dell’avversario ha preso piede con l’avvento della società di massa e con l’esigenza, che da essa deriva, “di comunicare attraverso retoriche e linguaggi che creino lealtà e motivino alla lotta politica”. Ad amplificare (o, in certi casi, a produrre) tali pratiche, quei mezzi di comunicazione divenuti strumento sempre più indispensabile per affermarsi sulla scena pubblica. Non meno significativo il ruolo esercitato dalle elezioni, momento essenziale della politica moderna: “è evidente – spiegano Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza nell’introduzione al volume da loro curato (Il nemico in politica. La delegittimazione dell’avversario nell’Europa contemporanea, Il Mulino, pagg. 240, euro 19) – che la competizione elettorale innesca processi di intensificazione dello scontro politico che facilitano l’utilizzo di retoriche sul nemico interno”.
Il libro ha il pregio di analizzare i processi di delegittimazione in una prospettiva temporale allungata che dal secondo Ottocento giunge fino ai giorni nostri prendendo in esame diversi casi nazionali: dall’Italia liberale all’Impero austro-ungarico passando attraverso la Germania weimariana e l’Inghilterra novecentesca approdando infine alla Francia sarkoziste. L’approccio comparatista ha permesso di rilevare tanto le specificità nell’attuazione di pratiche delegittimanti, riconducibili alla particolarità di taluni eventi o alle caratteristiche di una determinata realtà statuale, quanto quelle costanti che rendono possibile abbozzarne un profilo. Soffermiamoci su di esse: solitamente il discredito ricade su un competitor, del quale viene messa in discussione la moralità, o altrimenti sull’universo valoriale, sulle idee, sugli interessi portati avanti da un candidato o da una formazione politica. Il primo caso si alimenta di insinuazioni sulla vita privata, sulle scelte sessuali, sulle caratteristiche fisiche o sullo stato di salute di un uomo politico. La via del gossip, rafforzata oggi da una stampa a caccia di scoop e da un’opinione pubblica ghiotta di scandali, non è nata certo con le scappatelle extraconiugali di Bill Clinton, né con le frequentazioni variopinte di Berlusconi e neppure con la vita da rockstar di Sarkozy. Già negli anni Trenta si tentò invano di screditare Hitler presentando false prove che ne dimostrassero l’omosessualità e la sessualità perversa. Nel 1976, invece, uno Chirac dimissionario presentò il presidente Giscard d’Estaing, col quale aveva fino ad allora collaborato, “come una sorta di malato mentale che si considera un re e che ha persino sistemato un trono a domicilio”.
Più facilmente la delegittimazione intende colpire i valori e le idee dell’avversario. Significativo è l’esempio dell’Italia liberale: dopo una fase iniziale in cui destra e sinistra si riconobbero quali legittimi competitori, esattamente come accadeva tra whig e tory in quell’Inghilterra patria del bipartitismo e modello per la galassia liberale europea, l’avvento al governo degli uomini della sinistra, nel 1876, si accompagnò al tentativo di screditarne le aspirazioni. Pur non attaccandone direttamente le idee, la precedente maggioranza enfatizzava la prossimità della sinistra costituzionale a quei nuclei anti-sistema, a quei radicali che avrebbero potuto mettere in discussione le stesse basi (malferme) dell’edificio nazionale. I radicali, a loro volta, estromessi da Depretis dalle leve del potere, improntarono la campagna elettorale del 1895 a denunziare il clima corrotto che aveva contraddistinto i governi Crispi.
Finita la Grande guerra, le elezioni del 1919, quelle del ritorno al sistema proporzionale e dell’avvento dei partiti di massa, furono contraddistinte da un’intensa competizione: da una parte, i socialisti criminalizzavano le concorrenti forze borghesi, additate a responsabili delle immense sofferenze popolari sopportate prima e dopo il conflitto; i liberali tendevano invece a rimarcare la presunta subalternità del partito di don Sturzo alle decisioni vaticane. Nell’Italia del secondo dopoguerra, il voto del 1948 fu interpretato come uno scontro tra il bene e il male: tanto i comunisti quanto i democristiani si proponevano di sottolineare “l’alterità rispetto al sistema” dell’avversario.
Se le pratiche fin qui descritte sono rimaste pur sempre nell’alveo di una delegittimazione retorica, non è escluso che il discredito dell’avversario passi attraverso l’impiego della violenza. La delegittimazione “intenzionale”, deliberatamente finalizzata al cambio di regime, può sfociare nel sangue: basti pensare agli omicidi di Erzberger e Rathenau che estremisti di destra portarono a termine nella travagliata Germania weimariana. L’assassinio certo travalica la delegittimazione, ma talvolta costituisce il gesto folle di una realtà avvelenata improntata alla criminalizzazione dell’avversario politico.
Ben più pacifica fu la delegittimazione che un giovane De Gasperi portò avanti nel Trentino austro-ungarico: suo proposito era quello di mettere in discussione un’élite politica, quella dei liberali, sostituendola con una nuova, quella popolare. Riuscì nell’intento, accreditando il suo partito quale formazione nuova, sinceramente legata al territorio e alle istanze di un lembo d’Italia sotto il controllo asburgico. De Gasperi fece ricorso ad una delegittimazione strumentale, temporanea e indispensabile “per segnalare agli elettori la propria presenza sul mercato politico”. Come insegna l’episodio che ha avuto per protagonista il futuro leader democristiano, la riduzione a nemico dell’avversario nella maggior parte dei casi non ha l’obiettivo di porre quest’ultimo al di fuori del contesto costituzionale bensì quello, assicurano i curatori, di “affermare un più favorevole rapporto di forze all’interno dei complessi meandri della costituzione materiale”.