Storia di un ragazzo qualunque che voleva fare musica e diventa Ligabue
11 Dicembre 2011
A Luciano Ligabue si deve uno dei migliori esodi del cinema italiano, “Radiofreccia” (1998). Poi ci ha riprovato con “Da zero a dieci” (2002), ma ha capito che doveva metterci un punto. In “Radiofreccia” c’era la sua vita. La giovinezza trascorsa nella provincia romagnola, con gli echi della rivoluzione che stava incendiando Bologna nella seconda metà degli anni Settanta. Musica e piadine, tossicodipendenza e amici del bar. La vita al cinema puoi raccontarla una volta. Poi devi ricorrere alla fantasia. E qui si è fermata, decisione intelligente, l’avventura cinematografica di Luciano Ligabue.
Adesso, per festeggiare il ventennale di attività di uno dei cantanti più amati e originali del panorama musicale italiano, Liga è tornato al cinema con “Campovolo 2.0”. Il film è innanzitutto un documentario sul mega-concerto messo in piedi da Ligabue all’aeroporto di Reggio Emilia lo scorso luglio. Centomila spettatori. Una serata indimenticabile. Liga dà il meglio di sé, alternando pezzi storici con nuove melodie. Vent’anni di canzoni sono tanti. Ma il tempo, a risentire testi e parole delle origini, sembra non essere proprio passato. Ligabue canta, come sa. Ma racconta anche la giovinezza, la crescita umana, gli amici di un tempo, i luoghi di un tempo.
“Campovolo 2.0” parla di un artista, di un universo musicale. Ma racconta anche il sogno di un ragazzo qualunque, che voleva a tutti i costi fare musica, e c’è riuscito. È diventato una rock star, un’icona, senza mai però dimenticare le radici, la provincia, il contato con aspettative e tormente della generazione con la quale è cresciuto.
Certo a giudicare con i canoni dell’estetica cinematografica, compreso l’utilizzo del 3D, c’è poco da dire. “Campovolo 2.0” non è un film, ma una documentazione del mondo di Luciano Ligabue filtrata da un concerto, dunque un film-concerto. Ma il cinema, per sua natura, è sempre impegnato nel tentativo di sfondare i propri confini, per continuare incessantemente a vivere, a reinventarsi, rimanendo però sempre se stesso. Come Wim Wenders, celebrato autore di un cinema che non esiste più, si serve del 3D in “Pina” per restituire l’immagine dell’universo elitario dei balletti di Pina Bausch, così Luciano Ligabue in “Campovolo 2.0” porta in scena se stesso e il popolo straripante e festante dei suoi affezionati, innalzandosi a testimone tridimensionale e ineguagliabile dell’anima popolare della musica rock italiana. Sicuramente c’è chi si annoierà a morte a causa della staticità dovuta alle deliziose evoluzioni corporali di Pina Bausch. E chi proverà orrore nell’ascoltare di “certe notti”, di “casse di Malox”, di “una vita da mediano”, rifiutando il fatto che la vita in fondo è un andirivieni tra “palco e realtà”.
Alta cultura o bassa cultura? Concezione elitaria o gusti giovanili e popolari del cinema? Musica classica o musica rock? Domanda vecchia, nata con la settima arte in fasce. Quindi inutile rispondere. O meglio, si può rispondere, invitando chi ne ha voglia (e magari non l’età) a vedere senza nessun preconcetto “Campovolo 2.0”. Vi troverà tanti ragazzi, appartenenti ormai ad un paio generazioni, che hanno scelto una guida: Luciano Ligabue. Liga, facendo le debite differenze, somiglia ad Adriano Celentano degli esordi. Speriamo che resti cantante, magari scrittore e pure cineasta, e non come Celentano decida di occuparsi di questioni più grandi lui.