Storia di un terremoto e di una città scomparsa

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Storia di un terremoto e di una città scomparsa

27 Dicembre 2008

Prima la profezia, da pochi conosciuta, rabbiosa maledizione verso la città e i suoi abitanti, quindi la tragedia: Il 28 dicembre 1908 Messina e Reggio Calabria venivano rase al suolo dal terremoto più violento d’Europa. Oltre 140 mila le vittime; terrore, morte, soccorsi difficili e male organizzati, atti di sciacallaggio durante quell’incubo che, in soli 31 secondi, distrusse completamente le due città.

Tribunale di Messina 26 dicembre 1908: “Le cause vanno spicce sia perché ce ne sono molte, sia perché bisogna liberare il ruolo per l’anno nuovo” – racconta il giornalista e politico Claudio Treves, riprendendo un aneddoto riferitogli da Ernesto Citarella, redattore della “Gazzetta di Messina e delle Calabrie”. Girolamo Bruno, 18 anni, ebanista, è tra gli imputati, accusato di furto. L’avvocato della difesa, senza impegnarsi più di tanto, si rimette al giudizio della Corte che, dopo pochi minuti di camera di consiglio, condanna il giovane a due anni di reclusione. Nel pretorio irrompe urlando la madre, “gli occhi dilatati – continua Treves – orrenda e sublime, come un’ossessa o una veggente: Mala nova! grida la donna, avia a veniri un tirrimotu cu li occhi e v’avi a ‘mmazzari a vui birbanti e a tutta Missina (Maledizione! Ha da venire un terremoto con gli occhi ed ha da ammazzare voi birbanti e tutta Messina.)

Vent’otto dicembre, ore 5:20 e 27 secondi del mattino, la terra inizia a tremare. Giovanbattista Rizzo, direttore dell’Osservatorio geodinamico e astronomico della città, sopravvissuto alla morte, rivela l’ora della prima scossa e l’intensità, i sismografi registrano il 10° grado della scala Mercalli. In pochi attimi la città e i suoi villaggi muoiono, si spezza il tempo, la storia e la vita di gran parte dei suoi abitanti. La dirimpettaia Reggio (e i territori vicini) subiscono medesima sorte. Saranno circa 140 mila le vittime complessive, solo a Messina se ne conteranno tra 75 e 80 mila.

I morti perirono tra le macerie delle loro abitazioni, quelli che cercarono scampo raggiungendo la zona del porto o le spiagge, furono risucchiati dall’onda anomala (tsumani alta oltre 10 metri) provocata dal maremoto che si propagò subito dopo, quando la terrà terminò di tremare. Altri, infine, morirono a distanza di poco o a causa delle ferite e dei traumi riportati o per le esalazioni di gas fuoriuscite dalle condotte spezzate.

Le due città rimangono avvolte nel silenzio per lunghissime interminabili ore. Distrutte le vie di comunicazione, le ferrovie, anche i sistemi telegrafici sono fuori uso. C’è da premettere, però, che il collegamento a telegrafo, sul versante siculo calabro, nei decenni precedenti aveva avuto non facile gestazione. Spiega Giorgio Boatti (nel libro La terra trema, Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l’Italia. Non gli italiani) quanto difficile risultassero da sempre i collegamenti con l’Isola, a causa delle violente correnti delle acque dello Stretto, che interrompevano di continuo i cavi, almeno fino al 1862 – 1863: “Solo nel 1867 l’amministrazione decise di stipulare una convenzione con l’impresa inglese “Telegraph Construction and Maintenance” la quale, nello stesso anno, riuscì a porre tre cavi, garantendo così la continuità al collegamento e, un quarto cavo, nel 1868, completò il circuito a grande distanza Torino – Modica – Malta.

Con gran parte degli abitanti morti o incastrati sotto le macerie e senza connessione telegrafica, il Governo venne informato in ritardo del disastro: solo dopo la diffusione della notizia in altri centri della Sicilia e della Calabria, giunsero al Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti i primi telegrammi inviati dai prefetti di Catania, Palermo e Catanzaro.

Messina e Reggio, importanti centri commerciali e d’affari con il resto della Penisola e con l’estero, godevano di grande prestigio a livello internazionale. Messina, inoltre, con la sua moltitudine di chiese e di stili architettonici medievali e barocchi attirava turisti da tutto il mondo. “Per 25 secondi – scrive Luigi Capuana l’8 febbraio 1909 -, che ci parvero un secolo sobbalzare il suolo sotto i piedi e ballare i muri delle case; ma la nostra immaginazione atterrita non arrivava a figurarsi fino a qual punto fosse riuscita devastatrice l’opera della natura”. Il socialista Filippo Turati sentenziò così dalle pagine di “Critica sociale” (1 gennaio 1909): “Messina un cimitero di cose e di uomini”, e sulla questione dei ritardi nell’informare il Presidente del Consiglio di allora sempre Turati precisa: “Il telegrafo è battuto e tormentato invano, ma le linee sono interrotte o ingombre; non dev’essere, non è, che un troppo spiegabile ritardo…”. Quindi il giornalista passa in rassegna i nomi di tanti “amici di ideali battaglie” scomparsi, e il suo pensiero corre al  “generosissimo Gaetano Salvemini ( che al riscatto politico del Mezzogiorno e alla campagna sul suffragio universale aveva dedicato buona parte del suo impegno intellettuale e politico). Salvemini, miracolosamente sopravvissuto alla strage, perse però tutta la sua famiglia, la moglie, i figli e una sorella.

In quelle settimane le più illustri firme del giornalismo italiano divennero inesauribili narratrici della furia senza pietà del terremoto: da Treves a Barzini, solo per citarne alcuni.  Molti scrittori rimasero toccati profondamente da quell’indefinibile terrore, Borges, Fogazzaro, Pirandello, De Roberto, Verga. Giovanni Pascoli, che insegnava all’Università di Messina, dopo la grande sventura, alla ripresa delle lezioni volle commemorare in aula tutti i “poveri compagni (d’ateneo, ndt.) periti nel disastro”, rievocando l’ultimo straziante atto della sepoltura (“Ormai in quel lido, non altra opera umana si compie, che l’ultima: il seppellimento”).

I primi soccorsi arrivarono dalle navi ormeggiate nelle acque dello Stretto o da quelle che di lì a poco sopraggiunsero. Rispetto, infatti, ai collegamenti per terra, il circuito di comunicazione tra le flotte in quegli anni veniva aggiornato in base agli esperimenti radio intrapresi da Guglielmo Marconi e, dal 1904, furono installate in Italia le prime stazioni marconigrafiche. Molte navi e piroscafi, come ad esempio, quelli della Compagnia di Navigazione Generale Italiana erano dotati di questi apparecchi, mentre le autorità russe le utilizzavano da oltre due anni. Le torpediniere “Saffo”, “Serpente”, “Scorpione”, “Spica” e l’incrociatore “Piemonte”, appartenenti alla Regia Marina, si trovavano proprio in quei giorni al largo del porto di Messina (sede della I Squadriglia torpediniere della Regia Marina). Purtroppo, però, gli equipaggi non erano a ranghi completi, poiché molti marinai erano in licenza per le festività natalizie. Sul “Piemonte” l’equipaggio era formato da 263 uomini divisi tra ufficiali, sottufficiali e marinai. Alle 8 del mattino della stessa giornata del 28, la “Saffo”, riuscì ad aprirsi un varco fra i rottami del porto. Lo stesso comandante del “Piemonte”, Francesco Passin, e la famiglia, vennero ritrovati morti nel crollo della loro abitazione dagli uomini del suo equipaggio. Raggiunta la riva i militari iniziarono ad organizzare i soccorsi, almeno 400 sopravvissuti, furono trasportati nella vicina Milazzo. A distanza di poco sopraggiunsero i primi aiuti stranieri, i russi, con una squadra navale di cadetti che da alcune settimane facevano esercitazione nel Mediterraneo, condotta dal comandante Litvnov e composta delle corazzate “Slava” e “Cesarevic”, dagli incrociatori “Makaroff” e “Bogatyr”, dalla cannoniera “Korietiz” e “Giljak”; a ruota le navi da guerra inglesi “Sutley”, “Minerva”, “Lancaster”, “Exmouth”, “Duncan”, “Euryalus”.

A Roma i serali del 28 pomeriggio, appena usciti dalle rotative, riportavano ancora vaghe notizie su alcuni morti a causa di un terremoto in Calabria. La notizia ufficiale dell’immane disastro venne comunicata con un telegramma trasmesso da Marina di Nicotera dal comandante della “Spica”, e da altri dispacci recapitati in successivo aggiornamento. Nella serata Giolitti convocò d’urgenza il Consiglio dei Ministri, emanando le prime direttive per affrontare la tragedia. I soccorsi italiani giunsero solo la mattina del 29 dicembre. Non erano organizzati. Il re Vittorio Emanuele III decise di recarsi personalmente nei luoghi terremotati. Insieme a lui la moglie, la regina Elena, la quale prestò amorevoli cure ai feriti, portando conforto e adoperandosi lei stessa nelle medicazioni e nell’assistenza: ancora oggi molti ospedali portano il suo nome e, dagli anni Sessanta, la città di Messina la ricorda con una statua a lei dedicata nel centro della città.

La solidarietà non mancò nemmeno a livello internazionale: il Kaiser Guglielmo II di Germania che più volte aveva visitato Messina, innamorandosi delle sue bellezze naturali e artistiche, ottenne di essere aggiornato costantemente della situazione, mentre il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt convocò d’urgenza il Congresso, che stanziò 50 mila dollari per i soccorsi e l’invio di 16 navi della flotta americana nelle zone colpite dal sisma. Gli aiuti dall’estero furono fondamentali anche durante la ricostruzione. I primi insediamenti in legno che cominciarono ad ospitare i superstiti presero appunto il nome dai diversi Paesi che si adoperarono per gli sventurati di Messina. Ancora oggi zone della città ereditano il nome di quartiere americano, svizzero eccetera.

Ma ai gesti eroici e di solidarietà si accompagnarono anche deplorevoli atti di sciacallaggio. Tanti malfattori giungevano in città dalle province per saccheggiare quanto di valore era rimasto incustodito. Si cercava tra e sui cadaveri e si arrivò addirittura a tagliare dita e orecchie ingioiellate, pur di rubare ogni cosa. La situazione non era controllabile e si decise di applicare il pugno duro e la fucilazione per chiunque colto sul fatto. Furono diverse le esecuzioni immediate in quelle settimane. Sul “Giornale di Sicilia” dell’1 gennaio 1909, un’intera colonna fa il resoconto della “legge marziale, dei “saccheggiatori presi e fucilati” in nome “dell’ordine pubblico a ogni costo!”. Si leggono le testimonianze dei profughi sopravvissuti che raccontano, come i carcerati di Messina e Reggio, liberatisi nel crollo dei penitenziari, insieme a delinquenti della provincia si fossero riversati nelle città “allo scopo di trar profitto dal disastro per cercare danari, oggetti, vivere tra le rovine”. Si conferma che a Messina “non uno, ma molti reclusi uccisero persone per vestirsi dei loro abiti e togliersi di dosso le uniformi da condannati. A Reggio scamparono alla morte una settantina di detenuti i quali si diedero al saccheggio”. In più, sempre dalla cronaca del quotidiano siciliano, si apprende che la legge marziale non fu proclamata ufficialmente e l’ordine di fucilare i rapinatori e i saccheggiatori venne impartito dai militari stessi ai propri subalterni, “previo accordo con le autorità politiche superstiti”.

Il terremoto del 1908 contabilizzò un numero immane di vittime ma anche di danni economici irreparabili. Su “Il Marzocco” Achille Loria cerca di annotare un difficile bilancio, spiegando l’enorme perdita di capitale umano, operaio e intellettuale, rimasto sotto le macerie del terremoto in due centri sociali e commerciali floridissimi quali erano Messina e Reggio. “Due astri raggianti”, definisce le città Loria, che hanno perso tutto il patrimonio artistico e monumentale che attirava visitatori da ogni continente. Rimasero distrutti completamente gli stabilimenti, le diverse attività commerciali e gli enormi depositi di merce; bloccata la grande attività del porto di Messina. Le rendite patrimoniali disperse, i risparmi e i gioielli conservati in “scrigni o nei sotterranei” mai più rinvenuti comportarono una perdita intorno ai 500 milioni (una cifra colossale per l’epoca). “Gli effetti medesimi – spiega Loria – che avrebbe cagionato il bombardamento di due città da parte di una flotta corsara e la loro conseguente distruzione e saccheggio”. Un danno economico dunque che ebbe ripercussioni a livello nazionale e internazionale per tutti quegli operatori che intrecciavano rapporti affaristici con Messina e Reggio Calabria.

Luigi Barzini, inviato per il “Corriere della Sera” tratteggia l’acquerello forse più tragico e carico di simbolismo incarnato nella tragedia del terremoto. In un articolo dal titolo “Visione di Messina distrutta”, pubblicato dal “Corsera” il 14 gennaio 1909 descrive così il suo arrivo nella città dello Stretto e lo scenario che si apre alla vista di chi si avvicina alla costa siciliana: “Messina, che si rivela a poco a poco dietro la lingua di terra del Faro è scomparsa… Al porto l’orrendo spettacolo della Messina morta si svolge ai miei sguardi con lugubre solennità… Sbarcando mi sono sentito alitare per la prima volta sul viso dalla città disfatta l’orrendo odore dei cadaveri… Ancora più di 75 mila cadaveri son sotto le macerie e forse in mezzo a questo immane carnaio umano vi è ancora qualche vivente”. Quindi quasi prefigurando il futuro Luigi Barzini considera: “Penso che la Messina che vidi non la vedrò mai più. Sorgerà una città nuova, sarà forse più bella; ma sarà un’altra”.