Storia d’Italia in quindici punti da far sottoscrivere ai nuovi patrioti

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Storia d’Italia in quindici punti da far sottoscrivere ai nuovi patrioti

20 Marzo 2011

Andando in giro per il nostro paese, ci si imbatte sempre più spesso in un’inedita categoria di italiani: fra me e me, li chiamo i “nuovi patrioti”. Signore sofisticate e liberal che ti offrono sorridenti la coccarda tricolore, giovani barbuti con la kefiah che fremono amor di patria, belle ragazze che invece della consueta bandiera arcobaleno, si ammantano di quella bianca, rossa e verde. Nel mio condominio, il 17 marzo, era dal balcone delle famiglie notoriamente di sinistra che  sventolava la bandiera nazionale. Nell’ambiente accademico siffatti trasformismi culturali (come al solito) non si contano: i nipotini di Umberto Eco sono tornati tutti a leggere il libro Cuore, si commuovono alla lettura dei racconti mensili e declamano pensosi la (un tempo) famosa lettera del padre a Enrico: Perché amo l’Italia?

Insomma il figliol prodigo sembra tornato alla casa comune: non c’è che da rallegrarsene, ammazziamo il vitello grasso e brindiamo. Ma siccome il lupo perde il pelo, ma non il vizio, e costui è caratterialmente propenso ad “allargarsi” e a occuparla tutta, quella casa, a contenderla ai figli maggiori che vi sono sempre rimasti, anche quando erano oggetto di derisione e di compatimento, proporrei di presentargli una serie di punti da sottoscrivere. Perché una questione preliminare dev’essere subito chiarita: non si può essere “patrioti” per l’oggi e continuare ad avere le idee di sempre sulla storia nazionale e sul cosiddetto “carattere degli italiani”,  presentando la storia d’Italia solo come una serie di fallimenti e di vergogne e insistendo su una qualche inferiorità antropologica del popolo italiano.

Li sottoscriva, questi punti,  e tornerem fratelli:

 1) la soluzione cavouriana del processo risorgimentale non è stata un suo tradimento (come si evince ancor oggi dall’ammiratissimo film di Mario Martone, Noi credevamo), ma l’opera della parte culturalmente e politicamente più matura della nazione;

2) agli sconfitti del Risorgimento (di destra come di sinistra) va presentato l’onore delle armi: erano buoni italiani anch’essi e – pure quelli di destra – devono trovare rispetto e comprensione nella storia nazionale;

3) dal cammino dell’Italia verso la democrazia non può essere espunto il sessantennio liberale, in cui il paese progredì in tutti i settori decisivi. Non era inevitabile che esso sboccasse  nel fascismo;

4) la prima guerra mondiale non è stata solo un’inutile strage, ma una grande affermazione di uno Stato che aveva alle spalle poco più di cinquant’anni di vita e la vittoria italiana non fu del tutto secondaria nel contribuire all’esito finale della guerra europea;

5) il periodo fascista non può essere concepito come il centro simbolico dei centocinquant’anni di vita unitaria, ma solo come una loro fase, disastrosa nell’esito, ma non rivelativa del senso vero della storia italiana;

6) il fascismo non può essere ridotto a un’esplosione di violenza antropologica, ma si presentò come un progetto di Stato e di vita culturale e sociale, che coinvolse (volenti o nolenti, ma più volenti che nolenti) la stragrande maggioranza degli italiani;

7) nonostante le sue velleità totalitarie, il fascismo non può essere equiparato al nazionalsocialismo tedesco, né sul piano ideologico, né nelle realizzazioni pratiche;

8) un esame comparativo dei comportamenti tenuti dagli eserciti nelle tragedie di quegli anni non ci permette di definire “brava gente” gli italiani, ma nemmeno di equipararli tout court, nel fanatismo e nella ferocia, a quelli di altri popoli;

 9) nella guerra civile del 1943-45 lo scontro non fu tra “uomini e no”, ma tra italiani che misero a repentaglio la propria vita, ciascuno per le proprie convinzioni. Le ragioni della storia e della democrazia erano da una parte sola, ma la maggioranza degli altri ha il diritto – ormai post mortem – a non essere ricoperta di disprezzo e di ingiurie, e magari a essere compresa nelle sue motivazioni;

10) il 18 aprile 1948 resta una data fondamentale della storia nazionale. La guerra fredda non fu uno scontro fra due giganti ciechi, ma fra due grandi potenze, che seguivano certamente logiche “imperialistiche”, ma di cui una aveva ragione, l’altra no. Per cui oggettivamente (per ricorrere a un avverbio “marxista”) allora il PCI fu un problema per la democrazia italiana, anche se molti comunisti (a partire probabilmente da Palmiro Togliatti) compresero abbastanza presto che si  stava meglio di qua che di là della cortina di ferro e finirono per comportarsi di conseguenza;

11) nel dopoguerra il potere democristiano non fu casuale o dovuto agli intrighi degli americani: era il paese reale che finalmente emergeva allo scoperto, un paese essenzialmente cattolico, che era rimasto ai margini della politica nazionale fino al 1919, era venuto a galla una prima volta col PPI e ora lo faceva di nuovo, con maggior respiro, con la DC. La Conciliazione del 1929 aveva segnato una svolta decisiva in questo cammino, la fine di un contrasto che aveva gravemente pesato sulla vita nazionale;

12) il ventennio 1945-1965 (gli anni del centrismo e del primo centro-sinistra) è stato probabilmente il punto più alto dei centocinquant’anni di vita unitaria, per qualità di classe dirigente, per realizzazioni pratiche, per slancio verso il futuro. Alcide De Gasperi ne è il rappresentante più eminente: con Camillo Cavour, è la figura di statista a cui gli italiani devono continuare a guardare.

13) la crisi del sistema politico è iniziata con le elezioni del 1968, con le spinte radicali del Sessantotto, col terrorismo degli anni ’70. Il quale fu rosso, oltre che nero: le Brigate Rosse erano composte da comunisti assassini, come allora ci furono post-fascisti assassini;

14) Bettino Craxi non fu un delinquente comune, né un ladro matricolato, ma un leader del socialismo europeo che cercò di avviare anche in Italia un percorso di modernizzazione: ma non ebbe la capacità politica di portarlo avanti;

15) Tangentopoli fu il compimento di una crisi di sistema che durava da decenni, non un giudizio universale che travolse i cattivi, segnando il trionfo del bene.

Mi fermo qui, perché il seguito è oggetto delle divisioni politiche dell’oggi, in cui ognuno ha il diritto di prendere la parte che vuole. Ma se il “nuovo patriota” riuscisse a introiettare, ad assimilare questi quindici punti, la presente lotta politica sarebbe forse meno lancinante e potremmo guardare con una qualche serenità al futuro. E compiacerci di questo ritrovato amor di patria. Perché una cosa è certa: se il presente alle volte sembra soffocarci, è a un qualche futuro per questo paese che bisogna ricominciare a pensare. Tutti.

                                                                                              Roberto Pertici