Storia e cronaca di un Lodo abortito

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Storia e cronaca di un Lodo abortito

12 Ottobre 2009

La prima versione dello scudo per le alte cariche dello Stato porta la firma di un esponente dell’opposizione di allora. Antonio Maccanico, centrosinistra. Eravamo nel 2002, e dopo un decennio di persecuzione giudiziaria nei confronti di Silvio Berlusconi – soprattutto dopo il drammatico precedente del ’94 – si avvertì l’esigenza che il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo non fosse funestato da nuove incursioni della magistratura ai danni del premier. La maggioranza fece sua quella proposta, che avrebbe avvicinato il nostro Paese alle compiute democrazie occidentali. Lo scudo divenne legge nel 2003 col nome di lodo Schifani.

Sembra trascorso un secolo. E invece è passato solo qualche anno. Pochi anni. Pochissimi in termini di giurisprudenza. Ma evidentemente abbastanza perché la Corte Costituzionale, che su quel primo "lodo" fu chiamata nel 2004 a pronunciarsi, non mostrasse alcun imbarazzo a smentire radicalmente se stessa con la sentenza sul lodo Alfano.

Ripercorriamo le tappe. All’inizio di questa legislatura, grazie alla semplificazione politica decretata dagli elettori, ci si era illusi di trovarci in un Paese normale votato finalmente alla modernizzazione e al cambiamento. Si intravedeva all’orizzonte una stagione di riforme e di confronto civile. E per scongiurare il pericolo che ancora una volta la volontà del popolo potesse essere sovvertita dall’azione di una frangia militante della magistratura, fu approvata una norma che senza introdurre surrettizie impunità consentisse di disinnescare il conflitto fra giustizia e politica che ha avvelenato gli ultimi quindici anni della storia italiana.

 

Come quella legge dovesse essere scritta per rispondere ai dettami della Carta, era stata la Corte costituzionale a indicarlo nel 2004, prescrivendo a quali parametri il legislatore dovesse attenersi. Cosa puntualmente avvenuta: lo stesso Quirinale ne ha dato atto in tre diverse occasioni, evidenziando come il lodo Alfano fosse "risultato corrispondere ai rilievi formulati in quella sentenza", e ricordando che "la Corte non sancì che la norma di sospensione di quei processi dovesse essere adottata con legge costituzionale".

Come da copione, alla prima occasione utile la magistratura milanese ha fatto ricorso alla Consulta. Nulla da temere: la norma seguiva pedissequamente le indicazioni della Consulta stessa, oggi presieduta da quel Francesco Amirante che nel 2004 fu estensore della sentenza. Non vi era dunque che da attendere fiduciosi. I giudici costituzionali non avrebbero potuto smentire se stessi così clamorosamente. E il conforto dell’opinione del Capo dello Stato era un’autorevole rassicurazione in tal senso. Addirittura, per evitare strumentalizzazioni e per rispetto nei confronti degli organi istituzionali coinvolti direttamente o indirettamente nella decisione, il programma di riforma della giustizia della maggioranza è stato sospeso subito dopo la riforma del processo civile.

Il resto è cronaca. Tre giorni prima della data stabilita per il pronunciamento della Consulta, in piazza del Popolo viene inscenata una ridicola manifestazione sulla libertà di stampa, che ha il solo effetto di mostrare quanto i germi eversivi che l’Italia dei Valori ha iniettato nella politica italiana stiano corrodendo in primo luogo l’opposizione, schiacciata dalla sua fazione più estrema. La sera stessa – preceduta alla vigilia da una surreale omelia dell’ingegner De Benedetti sulla libertà di informazione in Italia – viene depositata la sentenza civile sul lodo Mondadori. Oltre a fissare un risarcimento senza precedenti, usufruendo dello statuto probatorio "soft" tipico del processo civile essa pretende di riformare di fatto l’esito del processo penale, che aveva visto Berlusconi assolto nel merito in primo grado, e prosciolto in secondo grado per intervenuta prescrizione.

Negli stessi giorni, il pressing di Di Pietro e compagni nei confronti del Capo dello Stato assume toni inusitati. Si giunge ad accusare Napolitano di "viltà". Le timide prese di distanza degli alleati del Pd non bastano ad arginare la diga: si cerca di instaurare nel Paese un’atmosfera da resa dei conti finale. In questo clima, la Corte Costituzionale decide in un sol colpo di smentire il Quirinale, contraddire la sua stessa giurisprudenza, far saltare ogni principio di leale collaborazione fra le istituzioni e piazzare consapevolmente un macigno lungo la strada della costruzione di un Paese normale.

La pezza a colori secondo la quale la necessità di una legge costituzionale per introdurre lo scudo per le alte cariche non era stata oggetto di esame in occasione del precedente pronunciamento non sta in piedi: si tratta di una questione dirimente, preliminare a qualsiasi altro giudizio di merito. Ove fosse sussistita, la Corte non avrebbe mancato di rilevarla neppure cinque anni fa. Non lo ha fatto, e il Parlamento è stato sviato nella sua azione legislativa. Ha approvato una norma seguendo dettami poi smentiti dallo stesso organo che li aveva formulati. Ha riposto fiducia – come ha fatto il Capo dello Stato – nella lealtà tra istituzioni, illudendosi che nessuna strumentalizzazione politica avrebbe mai potuto metterla in discussione.

Così non è stato. E il guaio è che a farne le spese sarà l’intero Paese. Sarà un’Italia che d’improvviso si vedrà ripiombare addosso i fantasmi delle persecuzioni giudiziarie, i teoremi sulle stragi di mafia, la furia eversiva di forze politiche che qualcuno un giorno si dovrà assumere la responsabilità di aver pienamente legittimato con un’alleanza elettorale.

Non si è trattato di un ordinario incidente di percorso. Nell’Italia che ha isolato De Gasperi facendogli pagare d’averla salvata dalla fame e dal comunismo, che ha trattato Fanfani come un dittatore, che ha vissuto i drammi dell’assassinio di Moro e dell’esilio di Craxi, si vuole che il potere continui a essere considerato illegittimo.

Sta a noi trovare una via di uscita, a condizione che sia veramente tale. Altrimenti coloro che hanno in odio la sovranità popolare troveranno il modo di cuocere a fuoco lento il governo, la maggioranza che lo sostiene e quel poco che resta di normale in questo sventurato Paese.