Storia imprenditoriale (e non solo) di Carlo De Benedetti l’uomo dei poteri forti
06 Ottobre 2009
“Il nemico ci lusinga, stiamo per tradire (ma non subito)” ha titolato con tipica autoironia sul Foglio Giuliano Ferrara, con la sentenza sui 750 milioni che Fininvest dovrebbe pagare a Cir piombata subito dopo che il giornale “tendenza Veronica” aveva pubblicato un peraltro innocuo articolo di Carlo De Benedetti su “Obama tra Roosevelt e Carter”. A 75 anni, torna un’altra volta alla ribalta colui che è stato nel mondo imprenditoriale italiano il grande antagonista sia del ricco per eredità Gianni Agnelli che del tycoon fai-da-te Silvio Berlusconi. Anche perché appartiene a una terza categoria in qualche modo intermedia: figlio di un piccolo industriale, poi però cresciuto ulteriormente. In più, col tratto cosmopolita dell’origine ebraica, che provocò alla famiglia durante il fascismo una serie di peripezie su cui sua nuora ha pure scritto un romanzo. (Emmanuelle de Villepin, Tempo di fuga, Longanesi, 2006). Peripezie, tra l’altro, che sono state ritirate fuori anche di recente, in margine alla polemica tra Berlusconi e Repubblica. “Solo il modo in cui sono poste mi fa dire che a questa gente non rispondo. Se queste domande, in altro modo, me le avesse poste un giornale che non fosse un super partito politico di un editore svizzero con un direttore dichiaratamente evasore fiscale, avrei risposto”, aveva spiegato il Cav, sul perché non aveva dato un chiarimento sull’ormai famosa lista di domande. “De Benedetti ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse”, ha risposto il direttore di Repubblica Ezio Mauro.
Carlo De Benedetti, classe 1934, è abbastanza dentro alla buona società da essere compagno di studi di Umberto Agnelli. Ma il padre non è mai andato oltre i tubi: la Compagnia Italiana Tubi Metallici Flessibili, fondata da Rodolfo De Benedetti nel novembre 1921 con capitali in parte tedeschi (Società Witzenmann di Pforzheim). Laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1958 al Politecnico di Torino, Carlo comincia a lavorare nell’impresa di famiglia. E non è che nel 1972 che assieme al fratello Franco, futuro senatore, acquisisce la Gilardini: una società quotata in Borsa che fino ad allora si era occupata di affari immobiliari e che i due fratelli trasformeranno in una holding di successo, impiegata soprattutto nell’industria metalmeccanica. Presidente e amministratore delegato della Gilardini, nel 1974 Carlo è nominato presidente dell’Unione Industriali di Torino. E nel 1976, grazie all’appoggio del vecchio compagno di scuola Umberto Agnelli, ottiene la carica di amministratore delegato della Fiat. Come "dote" porta con sé il 60% del capitale della Gilardini, che cede alla società degli Agnelli, in cambio di una quota azionaria della stessa Fiat (il 5%). De Benedetti cerca di svecchiare la dirigenza della società torinese, nominando manager a lui fedeli, a cominciare dal fratello Franco, alla guida di importanti unità operative del Gruppo. Ma dopo appena quattro mesi deve abbandonare la carica. Motivazione ufficiale: “divergenze strategiche”. Ma quel che c’è sotto davvero non si sa. Alcuni parlano di una semplice incompatibilità con Romiti. Altri che la parte di dirigenza Fiat più legata alla famiglia Agnelli avrebbe scoperto un tentativo dei De Benedetti di scalare la società, appoggiati da gruppi finanziari elvetici (ancora la Svizzera…). Forse non è vero. Ma corrisponde comunque alla leggenda nera su De Benedetti, inquieto protagonista di arrischiate scalate che vanno sempre a finire male. Anche se lui ha l’abilità di uscirne fuori sempre con le tasche piene.
D’altra parte, è proprio con il denaro ottenuto dalla cessione delle sue azioni Fiat De Benedetti può rilevare le Compagnie industriali riunite (Cir), garantendo loro il controllo azionario del quotidiano Repubblica e del settimanale L’espresso. E qui inizia invece la leggenda opposta: quella “bianca” del De Benedetti miliardario illuminato e generoso finanziatore della stampa progressista. Esemplare in proposito è il ritratto che ne dà Eugenio Scalfari nel 1986 in La sera andavamo a Via Veneto (Mondadori): “è stato il solo, tra gli industriali di nome, ad aver osato sfidare la ‘monarchia’ Agnelli. È il solo del suo ambiente ad avere un rapporto col partito comunista. È ancora il solo che ha mantenuto una polemica autonomia rispetto ai gruppi politici dominanti”.
Spiega ancora Scalfari: “in Italia ci sono stati molti finanzieri e imprenditori ‘avventurosi’, protagonisti di grandi romanzi politico-economici, ma si è sempre trattato di outsider rifiutati dal sistema. L’unicità di De Benedetti consiste proprio in questo: non è fuori dal sistema anzi vi è profondamente inserito; e pur tuttavia è anomalo rispetto ad esso. Non rifiuta le regole del gioco, ma le interpreta in modo radicalmente difforme dagli altri. Diciamo che la sua interpretazione è più vicina ai modelli liberistici che a quelli dell’oligopolio. Infatti, gioca da ‘cavalier solo’. Sotto le apparenze d’un uomo d’affari assai arrischiato la realtà è invece quella d’un calcolatore assai prudente. Non si conosce che abbia mai bluffato nel corso delle sue complesse partite; né che sia andato alla ricerca del ‘colpo grosso’ mettendo sul tavolo tutta la posta. Proprio a causa di questa cautela, accompagnata da una capacità di lavoro eccezionale e da un intuito per gli affari molto superiore alla media, si è da tempo formato in Borsa un ‘partito De Benedetti’: quando si muove in una direzione, il mercato lo segue senza esitazioni; il suo nome funzione ormai come una garanzia, attorno alle sue iniziative si aggregano in breve tempo capitali cospicui formati da una miriade di anonimi risparmiatori medio-piccoli. Così De Benedetti ha costruito il suo credito, questo è il suo leverage, il suo potere di mobilitare capitali e guidarli”.
Dopo la Cir vede la luce anche Sogefi: operante sulla scena mondiale nei componenti per autoveicoli, ne sarà presidente per venticinque anni consecutivi, prima di cedere il posto al figlio Rodolfo, conservando però la carica di presidente onorario. E nel 1978 entra in Olivetti: un’altra impresa dalla fama di progressismo, anche per la fede socialista del fondatore Camillo Olivetti e per gli arditi esperimenti di ingegneria sociale che il figlio Adriano fece a favore dei suoi operai. Ma Davide Cadeddu, in una breve biografia presentata nel volume a quattro mani con Giulio Sapelli Adriano Olivetti lo Spirito nell’impresa (Il Margine, 2007), ha sparato a zero su quanto “successe anche nella stessa Olivetti quando vi giunse Carlo De Benedetti e nulla di quei valori lasciò nell’azienda, ma tutto di essi disseminò fuori di sé, come per una sorta di hegeliana astuzia della ragione”. In particolare Cadeddu ricorda “l’arrivo di Carlo De Benedetti e la sua presa di possesso degli uffici: un esempio di mancanza di stile che rimarrà memorabile nelle storie del saper vivere internazionale, con l’ondata di terrore aziendale che ne seguì e con il contagio di opportunismo che determinò, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni e trasformandolo in vuoto di fedeltà zelante di ossequio. E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento di decine di dirigenti, a confortare l’ipotesi –già espressa tra gli altri da Ottorino Beltrami nella sua testimonianza – che molto rapidamente, cioè immediatamente dopo la morte di Adriano nel 1960, con il sopraggiungere del gruppo di controllo diretto da Bruno Visentini, di quei valori in azienda s’iniziò la svendita. Sotto questo profilo, l’avvento di Carlo De Benedetti non fu altro che il definitivo suggello di un processo di dilapidazione avviato già da tempo”. Ed ecco qui altri due risvolti della leggenda nera di De Benedetti. Primo: il padrone delle ferriere nel senso più deteriore del termine che si dipinge come progressista e finanzia la sinistra per ripulirsi l’immagine. Secondo: il comodo bersaglio polemico che chi non è a sinistra può ritorcere contro i partiti dei moralizzatori, della serie: “ma perché non guardate alle travi negli occhi vostri?”.
È però pure vero che quando nel 1978 ne diventa presidente la Olivetti è un’azienda dal nome sì glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto. De Benedetti pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Soprattutto quello dei registratori di cassa sarà un affare d’oro, quando nel 1985 Bruno Visentini, ministro delle Finanze del governo Craxi, obbliga per legge tutti i commercianti al dettaglio al loro utilizzo con emissione dello scontrino fiscale. Indubbiamente, era una misura indispensabile per combattere l’evasione. Il fatto che lo stesso Visentini fosse stato presidente della Olivetti diede però luogo a fiere polemiche, anche se oggi di quel conflitto di interessi e di quel favore del governo Craxi a De Benedetti si è persa memoria quasi del tutto.
Nel 1984 la Olivetti aveva comunque inglobato l’inglese Acorn Computers. E nell’aprile del 1985 Romano Prodi presenta a sorpresa De Benedetti come azionista di maggioranza della Sme: il fiore all’occhiello dell’industria agro alimentare italiana, definita dallo stesso Prodi “Perla del gruppo Iri”, e che spazia da Motta e Alemagna a Bertolli, supermercati Gs e Autogrill. La bontà dell’operazione è stata curiosamente difesa dai giustizialisti Gomez e Travaglio nel loro libro Le Mille Balle Blu (Rizzoli, 2006): “Berlusconi s’interessò della Sme nel 1985 su richiesta di Craxi che voleva ostacolare l’acquisto dell’azienda da parte della Buitoni del suo nemico Carlo De Benedetti. L’azienda pubblica fu valutata dagli alleati del Cavaliere, Barilla e Ferrero, rispettivamente 10 e 30 miliardi di meno della cifra pattuita da Iri e Buitoni sulla base di due perizie indipendenti commissionate a due esperti della Bocconi. E Berlusconi, quando rilanciò, offrì prima 550 miliardi (appena il 10% in più di De Benedetti, il minimo rilancio possibile) e poi 600. Se davvero, già all’epoca, valutava la Sme 2500 miliardi, non resta che concludere che anche lui voleva rapinare lo Stato. Altro che medaglia d’oro. Il fatto poi che 10 anni dopo la Sme sia stata venduta per 2000 miliardi dipende da altri fattori: l’inflazione; il boom del settore alimentare; il fatto che la società fu ceduta a pezzi e nel frattempo era stata risanata dall’Iri (mentre nel 1985 era un carrozzone fortemente indebitato); e soprattutto il fatto che ne fu ceduto il 100%, mentre nell’85 la Buitoni offrì 500 miliardi per rilevarne soltanto il 64,3%. Prodi non svendette nulla, e infatti fu prosciolto all’epoca dal Tribunale di Roma che indagava sull’affare”. Un altro, più corrente punto di vista è invece quello espresso dalla Wikipedia in italiano: “La vendita è incomprensibile sia da un punto di vista economico che da un punto di vista procedurale. In sordina era stato venduto il 64% della Sme per 497 miliardi (pagabili a rate). La società aveva una cassa attiva per 80 miliardi di lire (40 milioni di Euro) e utili (nel 1985) per 60. Inoltre al pacchetto di maggioranza della società non veniva applicato il premio di maggioranza per il controllo della stessa. Se consideriamo che la Sme aveva una capitalizzazione di 1.300 miliardi è facilmente comprensibile come il controllo azionario della società passava di mano per una cifra notevolmente inferiore a quanto fissato dal valore di mercato”.
Comunque, è questa l’epoca in cui alla rivalità con Agnelli si aggiunge quella con Berlusconi, trascinato da Craxi in reazione alla linea anti-Psi dei giornali editi da De Benedetti. E che poi non deriva in realtà probabilmente da interessi particolari dello stesso De Benedetti, ma all’ideologia di quel partito dei moralizzatori di cui Scalfari è un leader. Intanto, le toccate e fughe continuano. All’inizio degli anni ottanta De Benedetti è già entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, guidato allora dall’enigmatico presidente Roberto Calvi. Con l’acquisto del 2% del capitale, De Benedetti ha ricevuto la carica di vicepresidente del Banco: funzione puramente onoraria ed a cui non era collegata alcuna attività di gestione effettiva(nella sede milanese dell’Ambrosiano, in Via Clerici, non gli era stato assegnato neppure un ufficio). Dopo appena due mesi, lascia il Banco cedendo la sua quota azionaria. Ma comunque è riuscito a incrociare anche la torbida vicenda del banchiere poi trovato impiccato al Ponte dei Frati Neri di Londra.
Sempre a metà degli anni ’80 De Benedetti tenta l’opa sulla Société Générale du Belgique dei Lippens, mossa che lo proietta definitivamente all’attenzione dei mass-media, tra i figli degli emigranti italiani già ultima ruota del carro in Belgio che dicono di voler fare collette per aiutare la rivincita di quel loro connazionale, e le battute di un Beppe Grillo ancora non trasfigurato in profeta dell’antipolitica: “ma guarda un po’, quello esce di casa e si compra il Belgio. Ve l’immaginate? ‘Ciao cara, esco un attimo di casa che vado a comprare il Belgio’. “Bravo. Già che ci sei, mi passi anche dal fornaio e mi prendi un chilo di sfilatini?”. Ma Gianni Agnelli gli si mette invece di traverso, così come gli ha fatto Berlusconi con Sme. Lo aiutano Banque Lazard e Etienne D’Avignon, che poi diventerà consigliere d’amministrazione della Fiat. Scrive Marco Ferrante in Casa Agnelli (Mondadori, 2007): “Non avrebbe sopportato che De Benedetti vincesse in Europa. ‘Alla fine mi disse: sono contento che lei non ce l’abbia fatta, veramente usò un’espressione molto più colorita, e io gli dissi: avvocato, la ringrazio per il contributo”.
Segue l’altro grande scontro tra Berlusconi e De Benedetti del 1988-90, quando i due si danno battaglia per la Mondadori. In L’Italia di Berlusconi (Rizzoli, 1995) Montanelli e Cervi descrivono il grande duello tra “due uomini antitetici per i casi della vita ma anche per formazione, per indole, per comportamento. L’ingegner De Benedetti era tanto riservato e freddo quanto Berlusconi era estroverso e intemperante: un finanziere, appassionato di manovre borsistiche, giocatore tenace ma non sempre vincente sulla immensa scacchiera delle transazioni internazionali, stratega controverso delle guerre per accaparrarsi maggioranze e minoranze. Queste guerre sono combattute di solito da coalizioni, le armate di cui ogni alleato dispone si chiamano pacchetti di azioni”.
Il Pci e il partito dei moralizzatori di Scalfari tifano per De Benedetti, nel timore che la vittoria di Berlusconi porti sotto il controllo di Craxi le tre testate che sono la loro tradizionale artiglieria: il quotidiano Repubblica e i settimanali L’Espresso e Panorama. I moderati della Dc e Craxi cercano invece di sostenere Craxi. Alla fine, la soluzione salomonica la trova Giuseppe Ciarrapico: re delle acque minerali, e mediatore con un curioso pedigree addirittura di destra neo-fascista. De Benedetti dunque conserva il gruppo Repubblica-Espresso; Berlusconi resta con la Mondadori, Panorama e Epoca (che ben presto peraltro dovrà chiudere). Un pari e patta che però fa cambiare di campo una testata storica del partito moralista come Panorama, e lancia definitivamente a sinistra l’allarme sul Cav. Infatti, a Tangentopoli iniziata De Benedetti cerca di accreditarsi come l’imprenditore “pulito” e “favorevole al nuovo”, tant’è che quando nel 1993 Berlusconi annuncia clamorosamente che al ballottaggio per il sindaco di Roma voterebbe Gianfranco Fini lui subito fa sapere che invece sceglierebbe Francesco Rutelli. Il che non gli impedisce peraltro di finire per un po’ in carcere, per effetto di Tangentopoli.
Gomez e Travaglio in Le Mille Balle Blu nel commentare un’intervista a Radio anch’io del 30 novembre 1999 in cui Berlusconi afferma che “la Repubblica ha barattato l’impunità del suo editore offrendosi a questo partito dei giudici giacobini come la gazzetta giustizialista che sostiene sempre le loro posizioni” ricordano: “querelato dal gruppo Caracciolo per quella diffamazione, Berlusconi si salverà dal processo grazie all’insindacabilità parlamentare. Per la cronaca, De Benedetti è stato arrestato nel 1993. Berlusconi mai”. Dimostrazione del fatto che non ci sono favoritismi o che de Benedetti ne ha fatte di peggio? Gomez e Travaglio si proclamano orgogliosi allievi di Montanelli, ma Montanelli con Cervi in L’Italia degli anni di fango (Rizzoli, 1993) usa ben altri toni: “degno – o piuttosto indegno – di un posto di riguardo in questa sceneggiata”, quella degli imprenditori corrotti che si proclamavano onesti, “Carlo De Benedetti che s’era proclamato ‘diverso’ dagli altri imprenditori (così come il Pci e il Pds s’erano proclamati diversi dagli altri partiti) e che dai giornali a lui soggetti, l’Espresso e la Repubblica, era stato indicato come modello d’uomo d’affari immune dagli spasimi d’aggancio politico e dalle tentazioni tangentizie cui gli altri esponenti della razza padrona – per usare un termine caro al più autorevole tra i suoi giornalisti Eugenio Scalfari – erano soggetti”. È vero che al momento di scrivere queste righe Indro non aveva ancora litigato con il Cav… Quanto a Scalfari, scriverà del suo turbamento, vedendo infranti i “profondi e comuni convincimenti morali” che lo univano all’editore, al punto da porsi l’interrogativo il lungo sodalizio se non dovesse considerarsi concluso. Invece, continuerà.
A questo punto comincia però ad andare male anche Olivetti. E De Benedetti la lascia infatti nel 1996, pur rimanendone presidente onorario fino al 1999, poco dopo aver fondato la Omnitel in seguito alla concessione di telefonia cellulare alternativa a Tim ottenuta dal governo Ciampi, battendo la concorrenza di un consorzio con Fiat e Fininvest e dell’americana Pactel. Al vertice Olivetti verrà proiettato il ragioniere Colaninno, che poi darà la scalata al “nocciolino” Agnelli della Telecom, ribadendo ancora una volta il principio della rotta di collisione tendenziale tra ciò che è targato De Benedetti e ciò che è targato Agnelli o Berlusconi. È tanto più sorprendente, dunque, quando nel 2005 riceve da Silvio Berlusconi un consistente contributo per un fondo finanziario comune destinato al recupero delle imprese in difficoltà. Ne segue una tempesta di reazioni e insinuazioni tali, che è costretto a declinare l’offerta. Sarà proprio in una lettera a Repubblica che spiegherà le ragioni di quell’intesa e poi della rinuncia, condendola con un richiamo alla comunanza di valori e ideali verso il “partito Repubblica”: “Cara ‘Repubblica’, cari lettori, cari giornalisti e collaboratori del Gruppo Espresso, caro Eugenio, caro Ezio, in questi giorni mi sono reso conto che si attribuisce alla mia persona una grande responsabilità sulla scena italiana, sia come individuo, sia come azionista dio maggioranza del Gruppo Espresso-Repubblica, ai cui giornalisti ho sempre garantito la massima liberà d’espressione. È certamente una comunanza di idee e di ricordi che ci ha fatto incontrare tantissimi anni fa (Eugenio, ricordi i primi incontri con te e Carlo Caracciolo agli inizi degli anni Settanta?) e ci ha unito attraverso tante battaglie. La passione civile e politica che mi anima dagli anni lontanissimi del Politecnico di Torino, ha portato oggi alla mia identificazione con il Gruppo Espresso, con le persone che lo hanno diretto, lo dirigono, vi lavorano, con i suoi lettori”.
Ma comunque si è stabilito con Berlusconi un nuovo clima di possibile intesa che si ripercuote probabilmente da un lato nella nuova linea possibilista del Partito Democratico. Dall’altro, nella comparsa dello stesso De Benedetti in quella specie di lista nera pubblicata da Barbacetto, Gomez e Travaglio in appendice al loro Mani Sporche. 2001-2007. Cosi Destra e Sinistra si sono mangiati la II Repubblica (Chiarelettere, 2007): “De Benedetti Carlo: uscito in parte per assoluzione in parte per prescrizione dal processo romano sugli appalti alle Poste (corruzione), ha chiuso con due oblazioni da 50 milioni di lire ciascuna altrettanti processi per le manovre in Borsa sui titoli Olivetti (insider trading) e per i bilanci del gruppo di Ivrea (false comunicazioni sociali). Quest’ultima sentenza è stata poi revocata dopo la riforma del falso in bilancio del 2002”. Quanto a Scalfari, nel rispondere alla lettera di De Benedetti sarà molto affettuoso nella forma: “Caro Carlo, caro amico nostro, la lettera che ci hai inviato ti rende piena giustizia e rafforza in noi affetto e fiducia”. Ma, proprio per questo, forse ancora più duro nella sostanza. “La compresenza di due ormai storici avversari che avevano ed hanno visioni del tutto diverse sul bene comune, i modi e i comportamenti adeguati a realizzarlo e gestirlo, poteva suscitare fraintendimenti, strumentalizzazioni interessate e anche un legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale. Forse Carlo de Benedetti non aveva valutato a fondo l’ampiezza di tale disagio, forte della sua buona fede e del legame ideale che ha sempre intrattenuto con chi l’ha diretto e lo dirige”.
A quest’epoca risale anche una specie di campagna di Vittorio Feltri su Libero, per lanciare De Benedetti come leader del Partito Democratico. Infine, lo scorso gennaio De Benedetti annuncia il prossimo ritiro dalla guida del suo impero industriale. “Una carriera di alto profilo e talora controversa” scrive il Financial Times. “Raro contrappeso alla crescente influenza di Berlusconi sui media e sulla politica italiani”, è l’opinione del Wall Street Journal. Entrambi i giornali però avvertono: anche in pensione De Benedetti si riserva il potere di nominare i direttori di Repubblica e Espresso, dunque “continuerà a influenzare la vita pubblica italiana da una posizione privilegiata”. E infatti, dalla vicenda “Papi” in poi lo scontro tra i due eterni duellanti è tornato al calor bianco. Fino all’ultima, clamorosa svolta.