Storia militante e un po’ polemica di un protagonista di quegli anni
01 Giugno 2008
È un libro intenso, partecipato e sofferto come solitamente sono i volumi di ricordi dei più stretti collaboratori di grandi personaggi politici. È un libro certamente di parte, ricco di tesi forti, un vero e proprio pamphlet polemico, su molti punti e non solo sul tragico epilogo di Aldo Moro. Ma non per questo il testo ne esce sminuito, poiché la memoria, checché se ne dica, è sempre di parte e non poteva essere altrimenti per il libro che Corrado Guerzoni, per 19 anni capo ufficio stampa, portavoce e assistente alla comunicazione di Moro ha deciso di scrivere a trent’anni dalla scomparsa del leader democristiano. Il libro ha dunque grande valore come testimonianza storica, come profilo biografico, infine come materiale di riflessione politica rispetto a molti passaggi controversi del nostro recente passato repubblicano.
Si diceva dunque un testo militante e in alcuni punti scopertamente polemico. Al di là del capitolo finale e dell’accusa forte ed evocativa «non si fece nulla per salvare Moro», e ancora «i brigatisti hanno sequestrato Moro, le forze politiche hanno sequestrato lo Stato», la tesi centrale del libro è quello di Moro costantemente in lotta per mantenere il Paese, e soprattutto
Negare questa immagine di Moro è impossibile, basta sfogliare i suoi principali scritti e discorsi per imbattersi in continui riferimenti alla matrice antifascista della Democrazia Cristiana e alle sue salde radici che affondano nello sforzo resistenziale. L’unica critica che si può muovere a Guerzoni in questo frangente è quella di insistere su una sola delle due facce della medaglia e di non mettere a sufficienza in rilievo il forte, e speculare, anticomunismo di Moro. Lo sforzo moroteo nell’impedire che
Accanto all’operato tutto interno alle logiche di partito non deve essere poi trascurato quello esterno, una vera e propria lenta e paziente operazione di pedagogia politica, rivolta alle masse indottrinate dal Psi e dal Pci, affinché si avvicinino progressivamente ai concetti di democrazia liberale. Proprio da questo punto di vista sono di estremo interesse le riflessioni di Guerzoni sull’operazione di centro-sinistra. Il lento, probabilmente troppo lento, avvicinamento dei socialisti all’area di governo (non fu
Ben più del singolo provvedimento conta allora la volontarista ed infaticabile azione morotea, caparbia e razionale, anche se spesso superficialmente liquidata come confusa per la complessità della prosa del suo discorso. Insistere su questo volontarismo non può che condurre a sfumare l’immagine che qua e là nel testo traspare di un Moro «martire», attaccato da destra e sinistra, dalle gerarchie ecclesiastiche così come dai vertici istituzionali europei ed americani. Gli attacchi non mancano di certo, ma il dato più significativo, se si vuole evitare di schiacciare la figura dello statista democristiano sui suoi ultimi tragici mesi di vita, è quello di una grande capacità di leadership.
Due tra i tanti casi emblematici sono ricordati nel libro di Guerzoni. Da un lato l’intransigenza morotea nel suo rapporto con le gerarchie ecclesiastiche, e in particolare con il Presidente della Cei Siri, nella fase di formazione del primo centro-sinistra. L’arte morotea di non concedersi, di svicolare dallo scontro frontale ed avviare consultazioni parallele con
Secondo passaggio fondamentale il discorso di Moro alla Camera dei Deputati del 9 marzo 1977 per difendere il collega di partito Gui, accusato nell’affare Lockheed. L’interessante aneddoto rivelato da Guerzoni, un Moro inizialmente deciso a proporre una linea tutta giuridica e quindi formale, poi convinto a tornare sui suoi passi sollecitato dal suo staff, fino a scegliere di scrivere le dodici memorabili cartelle che culminano nel grido indignato del «non ci faremo processare nelle piazze». Quello che parla il 9 marzo è un Moro che rivendica l’operato della Dc, il ruolo decisivo in 30 anni di governo del Paese, ma che contemporaneamente ricorda, in particolare al Pci (che dal giugno
Prima di passare alla questione del rapporto con il Pci deve essere sottolineato un altro interessantissimo passaggio della riflessione e dell’operato politico moroteo. Nel descrivere gli anni successivi al ’68, Guerzoni parla di un Moro ai margini del partito, ma molto attivo nel riflettere sugli eventi del 1968 e sulla portata della loro criticità, soprattutto da immaginare nel suo dispiegarsi sul lungo periodo. Ebbene anche in questo caso non si può trascurare come lo statista pugliese, se da un lato si mostra sensibile e aperto ad ascoltare le rivendicazioni delle giovani generazioni e il loro spirito di ribellione, dall’altro non può sottacerne il vuoto di progettualità politica e il rischio di quell’«insorgenza populistica» così ben definita da Nicola Matteucci nei suoi interventi dell’epoca su «Il Mulino» (di recente riproposti con un’illuminante introduzione di Roberto Pertici). Il critico della cosiddetta «stanchezza della Dc» è contemporaneamente il critico della pericolosa ondata di antipolitica che proprio all’indomani del ’68 mostra i suoi primi pericolosi sviluppi.
Infine la questione del rapporto con il Pci (da notare l’inedito appunto dell’incontro segreto tra Guerzoni e Tatò, stretto collaboratore di Berlinguer, del novembre 1976), trattata da Guerzoni al di fuori delle numerose semplificazioni giornalistiche del Moro che vuole condurre i comunisti alla guida del Paese. In realtà il progetto moroteo viene da lontano e si inserisce nel duplice tentativo di inserimento continuo di porzioni sempre maggiori di opinione pubblica all’interno dello spazio democratico e di contemporanea risposta alla crisi che sta attraversando il sistema politico nazionale, perlomeno dal tornante Sessanta-Settanta. La logica della cosiddetta «democrazia bloccata» sta nuocendo allo sviluppo politico e democratico del Paese perlomeno a partire dal 1969. Si tratta allora, secondo Moro, non più soltanto di un’educazione politica, né di una scelta strategica, quanto di «esplicitazione piena della vita democratica in un momento nel quale tutto il sistema politico doveva porsi il problema di corrispondere alle richieste di partecipazione di una società diffidente e restia» (p. 172). Ecco Moro rifiutare la logica di Berlinguer del «compromesso storico» e avanzare le sue proposte. Il Pci dovrà lentamente e progressivamente avvicinarsi alle stanze del potere per assecondare una sorta di bipolarizzazione del sistema politico che gli stessi elettori hanno imposto (alle elezioni del 1976 oltre il 73% dei suffragi era andato ai due partiti maggiori). A seguire una fase di compensazione, nella quale
In questo essere sfacciatamente aperto al dialogo e all’evoluzione del sistema socio-politico del Paese e diametralmente contrario all’approccio ideologico e materialista del comunismo, Moro diventa il bersaglio migliore per la folle furia omicida delle Brigate Rosse. Infatti, in una democrazia finalmente «normale», e in linea con le tradizioni europee, l’utopico progetto terrorista non avrebbe avuto alcuna chance di riuscita.
C. Guerzoni, Aldo Moro, Sellerio, 2008