Strapotere tecnico
27 Maggio 2012
Il commento più diffuso di fronte alla nomina di Enrico Bondi –risanatore per eccellenza delle imprese in crisi – a commissario alla revisione della spesa pubblica è stato: il governo dei tecnici si affida a un tecnico, il tecnico dei tecnici che, non potendo fare tutto da solo, si avvarrà di tecnici (i tecnici del tecnico dei tecnici). La battuta fa ridere ma non coglie la sostanza. Bondi è persona di grande competenza ed esperienza nell’ambito dell’impresa, non ha mai sfiorato tematiche politiche. Affidandogli la scelta dei settori in cui tagliare la spesa pubblica si è lanciato un segnale preciso: il paese va visto come un’azienda e i tagli vanno decisi fuori da ogni considerazione politica. Pertanto, poiché il Presidente del Consiglio e i suoi ministri, volenti o nolenti, hanno un ruolo politico, la questione è rimessa a un tecnico assolutamente puro. Così le forze politiche sono avvisate: è inutile proporre considerazioni politiche o sociali perché i tagli si faranno secondo criteri puramente tecnici.
Che una simile scelta funzioni è da vedere, e anzi i primi segnali indicano che difficilmente funzionerà. Ma è interessante l’ideologia che la sottende, e che non è un semplice trucco per mettere a tacere la “pretesa” di decidere quali tagli fare in base a considerazioni sociali, di equità, di rilancio della crescita al fine di stimolare l’occupazione, e quant’altro. È, a sua volta, una precisa scelta politica. Difatti, la tecnocrazia non è mera visione “scientifica”, “oggettiva” della gestione del paese. È un’ideologia basata sull’assunto che il paese è un’“azienda”, l’“azienda Italia”, con tutto il contorno delle formule connesse, come il chiamare “capitale umano” le persone concrete, come se fossero qualcosa di analogo a una pressa o a un telaio, salvo il dettaglio marginale che, anziché essere fatti di metallo o di plastica, sono fatti di carne, ossa e sangue e, en passant, pensano, studiano e lavorano con una mente, hanno sentimenti, aspirazioni e moventi.
Questa ideologia implica che i “valori”, la qualità umana delle persone, i progetti immateriali che ispirano il loro agire, non contano assolutamente niente: contano soltanto i parametri quantitativi che definiscono le caratteristiche economiche del paese. In verità, anche il considerare un’azienda in termini puramente economicistici è riduttivo e persino aberrante. Se è esistito ed è vivo e vegeto il socialismo (come dimostrano le elezioni francesi) e persino il comunismo (come dimostrano le elezioni greche), è per la pretesa di ignorare che i lavoratori sono persone, soggetti umani, e non macchine che possono essere accantonate secondo le convenienze. Tuttavia, la finalità principale, la ragione di esistenza di un’impresa è la produzione e quindi un’impresa in perdita è un non senso. Ma il fine di una società, di una nazione non è la mera produzione di merci, bensì qualcosa di molto più ricco e complesso che è velleitario descrivere con poche parole: diciamo che ne è un aspetto essenziale la condivisione di una comune civiltà. Senza questo aspetto una società è destinata a conflitti devastanti e alla rapida disgregazione. Nell’ideologia dei tecnocrati non c’è posto per i “valori”, per una visione umanistica, che anzi essi guardano con sarcastico sprezzo, come superstizioni del passato. Per questo la visione tecnocratica ed economicistica è un’ideologia che non ha nulla di oggettivo: essa è il risvolto del relativismo più radicale, della riduzione di ogni principio etico e morale a questioni puramente quantitative.
L’ideologia tecnocratica – che guarda al benessere dei bilanci e nel cui mondo non c’è posto per gli uomini – è egemone in Europa, sostenuta dal paese più forte, la Germania, che tramite essa mira a garantire gli standard della propria economia. Essa è andata al potere in paesi politicamente deboli come l’Italia e la Grecia e ha provocato reazioni istituzionali in paesi ancora politicamente strutturati come la Francia e la Spagna. L’ideologia tecnocratico-relativista è miope perché s’illude che le finalità delle persone possano essere ridotte alle regole di bilancio – il che non vuol dire (sia ben chiaro!) che i bilanci non debbano essere tendenzialmente pareggiati, ma che la via per arrivarci dovrebbe passare per scelte politiche e sociali ragionevoli, sostenibili e non riducibili a tecniche aziendali. Il risultato di tale miopia è sotto gli occhi di tutti: la rinascita del socialismo in Francia, e l’esplosione delle forze protestatarie e anti-sistema nei paesi politicamente deboli.
La politica in Grecia ha innumerevoli colpe, ma nessun paese può essere trattato come una colonia da mettere in riga con la forza, pena il riemergere impetuoso degli estremismi, comunismo e fascismo. I partiti italiani, esibendo la propria incapacità di governare e di proporre linee di condotta autonome hanno aperto la strada alla tecnocrazia e ai suoi compagni di strada obbligati: l’estremismo e il qualunquismo. Purtroppo estremismo e qualunquismo incanalano la sacrosanta aspirazione alla qualità della vita nella protesta, ovvero verso un’ulteriore distruzione di qualsiasi pensiero forte, dei valori che motivano le iniziative su cui si fonda una società coesa. Anche da una guerra si può uscire bene e l’Italia lo dimostrò. Ma occorre una spinta etica, occorre solidarietà sociale, il desiderio di fare qualcosa di positivo, di migliorare, il che non vuol dire soltanto produrre di più, ma anche, e soprattutto, crescere culturalmente e moralmente.
Le forze politiche che hanno governato il nostro paese dovrebbero cospargersi il capo di cenere per quanto non hanno saputo fare e per quanto hanno fatto (e continuano a fare!) per spianare la strada alla tecnocrazia e stimolare rigurgiti di socialcomunismo e di fascismo. Mi limito a un esempio in un ambito che conosco meglio. La presente legislatura era iniziata con buoni propositi sul terreno dell’istruzione, con l’intento di ridare spazio alla cultura, a quei contenuti dell’insegnamento che sono la sostanza della nostra civiltà, di restituire dignità alla funzione dell’insegnante come rappresentante della società e garante della formazione di giovani italiani preparati e liberi, liberi in quanto istruiti. Per far questo occorreva sottrarre l’istruzione alla mano morta del prepotere sindacale. Il risultato è disastroso. Oggi l’istruzione è sotto due mani morte: sindacati e Confindustria. L’ultimo prodotto dell’inciucio tra un centrodestra e un centrosinistra in crisi è una legge sull’autonomia delle scuole che le pone sotto l’egida di consigli di amministrazione in cui gli insegnanti sono ridotti a comparse in minoranza di fronte a genitori, studenti e “realtà” sociali, produttive, professionali e dei servizi. Insomma, una sintesi aberrante tra l’ideologia aziendalista e il vecchio assemblearismo di sessantottina memoria; un’epitome della tecnocrazia e dell’ideologia collettivista, il cui inevitabile fallimento può lasciare aperta la strada soltanto allo sbocco devastante del ribellismo.
(tratto da Tempi)