Su biopolitica, liberaldemocrazia e nazismo si può dire tutto e il contrario

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Su biopolitica, liberaldemocrazia e nazismo si può dire tutto e il contrario

25 Gennaio 2009

Si apre un libro che si intitola “Termini della politica”, e si pensa di trovarci la definizione dei termini più o meno essenziali che servono a comprendere la politica, ossia di alcuni termini che la politica utilizza. Chi nutra questa aspettativa nei confronti del volume di Roberto Esposito, la abbandoni prima di inoltrarsi nella lettura, pena un’amara delusione. Intanto, bisogna premettere che siamo non solo nel territorio della “biopolitica”, ma fra le pagine dell’autore italiano che è un po’ il padre della biopolitica.

Ma che cos’è la biopolitica? Ecco, qui incontriamo la prima difficoltà, il primo di una lunga serie di ermetismi che costringono il lettore a notevoli sforzi: la definizione non è data. Ovvero (come accade non solo a questo proposito), è data ma oscilla tra il vago e l’incomprensibile. Vago è infatti precisarla come rapporto del potere con la nuda vita; incomprensibile molto del resto. Vi dirò quel che ho capito io: la biopolitica si occupa della politica nei rapporti di quella che definisce pura vita, cioè del bìos, ovvero della vita umanizzata ma prima che essa abbia assunto le caratteristiche culturali con cui la conosciamo (e che la mascherano). Già qui facciamo fatica, ma continuiamo a inerpicarci. E giungiamo ai termini della politica: i principali, quelli che servono a pensare la politica, sono secondo Esposito “comunità”, “immunità” e, appunto, “biopolitica”. Bene “comunità”, benino “biopolitica” (nel senso che, come detto, la definizione è contorta e poco chiara), ma insomma si è affermata negli ultimi anni, e perché non includerla nei termini della politica? Ma già con “immunità” annaspiamo.

Leggiamo la lunga introduzione di Thimothy Campbell: chissà che non ci dia qualche lume. Vi apprendiamo che gli inventori della biopolitica e i suoi autori di riferimento sono Agamben e Negri, Esposito e Sloderijk, insieme ai defunti Foucault (l’iniziatore assoluto) e Derrida. Confesso che l’elenco mi ha scoraggiata non poco: include alcuni dei più ermetici e/o sopravvalutati autori degli ultimi anni. Lascio perdere, ma con rammarico. I temi della biopolitica sono, sarebbero, di scottante attualità: in qualunque modo si declini la diade bio/politica, sia che la si intenda come politica della vita, o politica attraverso la vita, o politica sulla vita, o infine come vita della e nella politica, ne risulta il suo grande interesse. La genetica e la bioingegneria, la mappatura totale del genoma umano, le possibilità inedite di intervento sulla vita e sulla morte, sull’essere animato e la sua moltiplicazione, aprono campi e problemi a non finire. Sarebbe molto opportuna una riflessione su tutto questo, su alcuni aspetti di questa trasformazione che abbiamo sotto gli occhi e della quale non abbiamo ancora esatta consapevolezza. Inoltre, la specie umana sembra a una svolta: può sopravvivere solo se la sua sopravvivenza diventa il fine consapevole dell’umanità che vive al momento attuale.

Ma questa non è la recensione di un libro non letto: decido di concentrarmi sui saggi che mi sembrano più comprensibili. Sono gli ultimi, quelli dedicati al nazismo.

Si resta stupiti prima di tutto da un fatto: la denominazione di temi e problemi classici del pensiero politico in modo diverso da quello noto a tutti. Ad esempio, l’individualismo viene chiamato immunità. Inoltre, gli autori classici del pensiero politico, ai quali alcuni temi sono legati indissolubilmente, vengono sostituiti con uno (o più) degli autori facenti parte del novero sopra ricordato degli inziatori-autori-interpreti della biopolitica. Ad esempio, Hobbes viene sostituito in modo sistematico con Foucault. Il lettore non riesce a comprendere i motivi della rinominazione e della sostituzione. Ma si fa forza, e va avanti. Si imbatte in una serie di definizioni della biopolitica, in base alle quali pensa di poter finalmente farsi un’idea di quali siano i campi o i problemi ai quali essa si applica. Legge, ad esempio, che la biopolitica ha a che fare con il disciplinamento. Disciplinamento di che cosa, di grazia? Nel testo non viene detto nemmeno per sbaglio. Il lettore  immagina: del corpo. Ma può essere ancora una novità questa, dopo che si sono studiati tutti i modi possibili di disciplinare il corpo dell’uomo e della donna e dei bambini e dei giovani (carcere, scuola, buone maniere, civiltà, sessualità, sport e così via) dalla prima antichità a oggi?

Il lettore apprende che il nazismo si basava su una biopolitica, così come il comunismo. Ma non lo aveva già affermato più di cinquant’anni fa Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo”? Nella descrizione del sistema del terrore e del campo di concentramento, Arendt non aveva messo in primo piano proprio il corpo dei condannati? Vero che Arendt è fra i numi tutelari della biopolitica, e forse non c’era bisogno di complicare la sua esposizione così limpida. Il fatto è che il concetto di totalitarismo alla biopolitica non va bene affatto.

Siamo nel rovescio del nazismo, afferma Esposito, e dobbiamo ancora confrontarci con esso per non ricaderci, mentre non siamo più nel rovescio del comunismo. Per pensare nazismo e comunismo è stato usato da molti il concetto di totalitarismo, ma Esposito distingue accuratamente fra totalitarismo e biopolitica, divergenti e escludentisi reciprocamente: il primo conterrebbe una storia letta secondo la sua successione cronologica e una filosofia della storia secondo cui il totalitarismo viene dopo e deriva dalla democrazia, ed è sconfitto dalla democrazia stessa. Due tesi non convincono l’autore: che qualcosa di così totalmente nuovo come il totalitarismo provenga dalla democrazia, e l’assimilazione fra nazismo e stalinismo (diversi, a suo modo di vedere, proprio nell’essenziale). Ipernaturalistico il nazismo, parossisticamente storicista lo stalinismo, i due regimi hanno a suo parere origini e natura non assimilabili. Il comunismo qui non deriva affatto – come voleva Arendt – dallo sgretolamento degli Stati-nazione, dall’imperialismo coloniale e dal razzismo biologico (le tre origini del totalitarismo per l’autrice tedesca).

La biopolitica, invece, parte non da presupposti filosofici – dice Esposito – ma dagli eventi concreti e dai loro linguaggi: adotta l’idea proveniente da Nietzsche di genealogia e scopre così che la vicenda storica dell’Occidente non è lineare bensì plurima, differenziata e contraddittoria. Notiamo sommessamente che la montagna ha partorito il topolino: e Nietzsche poteva anche non essere scomodato. Il Novecento – afferma comunque il nostro autore – vedrebbe l’entrata in scena della vita biologica dentro la sfera della politica, e ne farebbe esplodere la pretesa autonomia. Così, il nazismo “non è una ‘ideologia’ perché appartiene a una dimensione sottostante e diversa rispetto a quella delle ‘idee’, da cui nasce invece il comunismo marxista. Il nazismo (..) si situa all’esterno di quella tradizione occidentale che comprende come sua propaggine estrema anche la filosofia del comunismo.” Il nazismo, contro tale tradizione, non ha bisogno di idee ma si basa sulla mera forza materiale, su un dato naturale, biologico: è una “biologia politica, una politica della vita e sulla vita rovesciata nel suo contrario e perciò produttiva di morte”. Si è detto spesso che il nazismo è un unicum nella storia. Si è cercato però anche di spiegarne la formazione: dal Gyorgy Lukàcs di “Distruzione della ragione” al libro di Peter Viereck “Dai romantici a Hitler”, da “Le origini della democrazia totalitaria” di Jacob Talmon a Ernst Nolte, si è tentato – non proprio senza risultati – di spiegare il nazismo con gli eventi e le forze presenti all’epoca in Germania, con la cultura tedesca precedente. In questa ricerca anche il tema razziale (ciò che per Esposito pone il nazismo fuori dall’Occidente) è stato preso in esame, e riportato a correnti presenti largamente nella cultura europea. E come è possibile affermare che il nazismo non posssedeva una ideologia?

Secondo l’autore il liberalismo che vinse il nazismo nella Seconda guerra mondiale risulta “situato nello stesso regime biopolitico che, certo declinato in modo opposto, aveva dato luogo al nazismo”. La centralità del bìos viene infatti confermata nel liberalismo “anche se mutata in chiave liberale – vale a dire di appropriazione, e possibile modificazione, del corpo non da parte dello Stato, ma dell’individuo proprietario di se stesso.” Insomma, ci si riferisce qui all’aspetto per cui nel liberalismo io non sono il mio corpo, ma ho il mio corpo. E dunque posso farne quello che voglio: “usarlo, trasformarlo, venderlo come uno schiavo interno”.

Forse il gioco con i concetti e il gusto di simmetrie e opposizioni, eleganti com’è suo costume, ha preso un po’ la mano a  Esposito. Su un tema indubbiamente di grande interesse, la teoresi prevale sul ragionamento circostanziato e ancorato alla storia (ma non si doveva partire dagli eventi concreti?!), e il gusto del paradosso conduce ad affermare che nazismo e liberalismo sono sulla stessa linea, anche se di segno contrario. La base della parentela è il possesso del corpo: ma sarà diverso se il corpo lo possiede lo Stato, o il Partito, oppure l’individuo che ha quel corpo! O tutto invece è la stessa cosa, come la notte in cui tutte le vacche sono scure di cui parlava Hegel? Il concetto che il nostro corpo ci appartiene mi è sempre parso la difesa più salda alla limitatissima libertà di cui disponiamo in quanto esseri umani, in quanto cittadini: il confine assoluto che non può essere superato.  Peraltro, che cosa oppone la biopolitica a questa concezione non è dato sapere: quale sarebbe la teoria davvero liberale da sostituire a questa? La risposta a questa domanda cruciale resta nel mistero.

Fra l’altro, Esposito sostiene due tesi contraddittorie: la prima è che il nazismo si colloca fuori della tradizione occidentale; la seconda è che nazismo e liberalismo si collocano sulla stessa linea seppure da parti opposte. Ma delle due l’una: o il nazismo fa parte della nostra storia oppure non ne fa parte. Basta decidersi e star fermi a una delle due affermazioni. O il nazismo è inassimilabile alla storia alla quale apparteniamo perché eccezionalmente diverso oppure ne fa parte. Se è vera la prima tesi, bisognerà comunque spiegare come è nato questo corpo estraneo che è il nazismo; se è vera la seconda, bisognerà chiarire in che senso il nazismo è lo specchio rovesciato del liberalismo.

Come va di moda in Italia in un settore non marginale di riflessione sulla politica, Carl Schmitt viene preso a interprete autorizzato della democrazia e del liberalismo: sarebbe come cercare lumi sulla Rivoluzione francese in De Maistre o Donoso Cortès. Forse è per questo che le pagine su questo tema suonano vagamente sinistre.

Il tratto che la democrazia possiede è l’universalismo, secondo Esposito; il liberalismo invece è differenzialista. Difficile che possano stare insieme, a suo parere. Qui la pura teoresi si scontra duramente con la storia, con gli “eventi pratici”: e ne esce ammaccata poiché non vede che liberalismo e democrazia stanno insieme in un gran numero di realtà, e non da oggi. Ancora: se la democrazia è intesa solo come procedura vuota, tutto bene – afferma Esposito -, ma essa esplode quando vi viene immesso il dato nuovo che è assurto a centralità nel Novecento: la vita biologica, il corpo dei cittadini. Il modello della cura medica è diventato il modello stesso della vita politica, il corpo è continuamente interpellato: così secondo Esposito si è decisamente fuori della democrazia. Poiché il corpo di ognuno è diverso da quello di tutti gli altri, si fuoriesce dall’uguaglianza democratica che suppone individui astratti e uguali. Obiezione: ma anche le menti e i comportamenti degli uomini sono diversi gli uni dagli altri, e peraltro anche il loro lavoro e le loro proprietà; dunque anche questi elementi dovrebbero aver messo in crisi la democrazia. Invece così non è stato. E poi, il tentativo della democrazia non è esattamente quello di trattare come uguali individui che la democrazia sa anche troppo bene che uguali non sono?

Esposito afferma che è proprio la centralità assunta dal corpo ad aver segnato l’eclissi della democrazia: nessun voto a maggioranza può andar bene per la vita. Obiezione: il voto a maggioranza non va bene neppure per argomenti delicati e altrettanto soggettivi e personali come la religione, le idee in cui si crede e che si enunciano in pubblico, le opinioni, o anche come la scuola, la politica economica e tutto il resto. La democrazia intesa come voto a maggioranza non è la stessa cosa della democrazia come idea forte dell’uguaglianza di tutti i cittadini: Esposito utilizza due o più definizioni di democrazia, e le scambia continuamente nel corso del volume. Dovrebbe sapere che logicamente non è corretto comportarsi in questo modo, anche quando si parla di biopolitica.

Benissimo discutere di democrazia, liberalismo, nazismo, vita, a tutto campo e senza pregiudizi: ma il rigore concettuale è indispensabile, e sarà difficile ridurre la politica a idee generalissime quali quelle di uguaglianza e differenza.

R. ESPOSITO, Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, Milano, Mimesis, 2008, pp., euro.