Su elezioni e referendum la Chiesa ha detto poco e male
31 Maggio 2011
Nelle recenti elezioni amministrative il mondo cattolico ha dato molti segnali di sbandamento, e non solo alla base. Altri segnali di sbandamento li sta manifestando sui questi referendari del 12 giugno. Non c’è chiarezza, persistono vecchi approcci ideologici e, bisogna dirlo, anche i vescovi non stanno parlando chiaro.
Prima di tutto, in occasione della consultazione amministrativa, non è stato messo sufficientemente in evidenza come anche a livello comunale i cosiddetti “principi non negoziabili” giochino un ruolo fondamentale. A parte l’arcivescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi e qualche altro da contarsi sulle dita di mezza mano, nessuno si è pronunciato in questo senso. I vescovi non vanno a caccia di voti. Essi devono solo dare degli insegnamenti chiari, anche se elettoralmente non dovessero pagare. Io non ho sentito nessuno della Diocesi di Milano che abbia segnalato come oggi – e domani ancora di più – i Comuni hanno competenze fondamentali nel campo della vita e della famiglia. Del resto, basta guardare il programma elettorale di Pisapia per Milano per rendersene conto. Non solo a Milano nessuno ha sottolineato questi aspetti, ma addirittura prelati con importanti incarichi hanno firmato l’appoggio a Pisapia e gran parte dell’associazionismo cattolico si è buttato su quella strada.
Giuliano Ferrara ha fatto la domanda che doveva fare il cardinale Tettamanzi: cosa farete per il Centro aiuto alla Vita della Mangiagalli? Il centrosinistra avrebbe vinto lo stesso, ma si sarebbe fatto il proprio dovere.
Le stesse critiche alla “rissa”, alla politica “inguardabile” sono state interpretate da molti cattolici come posizioni un po’ qualunquiste, che mettevano tutti sullo stesso piano, che distoglievano l’interesse dai programmi, che si concentravano più sulle forme che sui contenuti. La dichiarazione del Segretario della CEI Mons. Crociata, che rimandava alla coscienza dei fedeli cattolici ispirata dai valori è stata piuttosto generica e debole ed è stata interpretata come un “fate come vi detta la vostra coscienza”. Quando c’è troppa rissa e la politica è inguardabile, il dovere dei vescovi non cambia: rimane quello di richiamare, oltre la rissa e l’inguardabilità, i valori irrinunciabili che devono fare da criterio-guida. Invece si sono perse di vista le priorità e i punti fermi.
Le medesime incertezze si notano sui quesiti referendari e soprattutto su quello riguardante la cosiddetta “privatizzazione” dell’acqua. Tutti i settimanali diocesani, a parte qualche raro esempio, sono appiattiti su un sì privo di approfondimento critico. Su un tema di tale spessore la Chiesa poteva dare ben altro contributo culturale che non adeguarsi agli slogan arcobaleno: il furto della sete, le multinazionali che vogliono lucrare sulla goccia d’acqua, “dacci oggi la nostra acqua quotidiana”. Di quotidiano c’è anche il pane, ma per garantirlo non si chiede che lo Stato sia proprietario dei forni. Per il referendum sull’acqua sono state fatte veglie e marce, proponendo l’improponibile: il collegamento tra il quesito referendario e il Cantico di Frate Sole di San Francesco: “Avrebbe sicuramente votato sì ai due quesiti referendari in difesa dell’acqua pubblica quel rivoluzionario di Francesco d’Assisi che, ben prima dell’approvazione della legge Ronchi, lodava “sorella acqua utile, umile, preziosa e casta”. Povero San Francesco!.
Il 30mo anniversario del referendum sull’aborto è passato quasi trascurato, ma quello sull’acqua diventa un imperativo da undicesimo comandamento. Almeno si sarebbe potuto adoperare il principio di sussidiarietà, che permette di distinguere tra proprietà e gestione; almeno si poteva ricordare che la Centesimus annus critica lo statalismo e propone un sistema a tre con il privato e la società civile. Invece si è fatta coincidere la tutela dell’acqua con la sua gestione pubblica. E con l’imprimatur di molti vescovi, tra cui, da ultimo, quello di Locri.
E’ facile raccogliere consensi soffiando nella stessa direzione del vento del mondo. Se per farlo, però, devo interpretare la Dottrina sociale della Chiesa come fosse un documento di Pax Christi e ridurre San Francesco a membro onorario del comitato “acqua bene comune” sarebbe meglio non cedere alla tentazione.