Sud Sudan. Dettagli su un nascituro “Oil State”
08 Gennaio 2011
Il petrolio è la “green card” che ha reso possibile l’indipendenza del Sud Sudan, dopo una sanguinosa guerra civile. Il Sudan è esteso quanto l’Europa occidentale ma è destinato alla divisione tra Nord, Sud, Darfur e la zona costiera, come è successo alla Yugoslavia.
Il lettore immagini un’Italia in cui si scopra che in Sicilia e in tutto il Sud vi sono grandi giacimenti di petrolio. Si pensi a una Lega del sud che combatta per l’indipendenza. Ci si immagini un Garibaldi nato a Marsala, che parta con un migliaio di siciliani su una flottiglia di vecchi e scassati Hercules diretti verso l’aeroporto di Genova. Si vedrebbero in tv atroci attacchi aerei, i raid di milizie mercenarie, stragi, profughi, morti. Questo fantapolitico incubo italiano è la realtà del Sudan, dove nasce una nuova nazione. La secessione non si basa soltanto sul petrolio, visto che il nord è arabizzato e governato dalla shariah islamica, mentre sud e Darfur hanno popolazioni e culti diversi.
Tuttavia il governo del Sud Sudan basa il suo Risorgimento sull’economia. mettendo in mostra i suoi gioielli sul sito goss.org. Cresce la produzione di riso, caffé, té e tabacco nella provincia di Equatoria, vicina a Uganda e Congo. La zona della capitale Juba è ricca di pesce. Si producono gomma, teak, mogano, ebano. Vi sono miniere di oro, ferro, rame e diamanti.
L’Africa è la Cina del nuovo decennio e, mentre Renault e Volkswagen fanno a pugni per creare nuove fabbriche in Algeria, testa di ponte per il bombastico mercato africano dell’auto, Fiat trascura le sue basi produttive in Sud Africa ed Etiopia.
Nel Sud Sudan arrivano aziende da tutto il mondo. Il 90% delle entrate della nascitura nazione proviene dalla vendita del petrolio, la cui estrazione ammonta a 500.000 barili al giorno. Il 70% del petrolio viene estratto nel Sud (il Nord dopo la separazione trivellerà il Darfur). Secondo il presidente Al Bashir entro luglio Nord e Sud troveranno un accordo sul confine dell’aerea di Abyei, ricca di giacimenti. Se non si tratta di parole false, ci sarà una condivisione della pipeline verso Port Sudan sul Mar Rosso.
La Cina in Sudan aveva costituito una sorta di protettorato del petrolio. La China National Petroleum Co. (CNPC) sta trivellando la costa nell’Area 15, un giacimento condiviso con la Petronas malese, la SudaPet locale e la Nigeria Express Petroleum. Mentre le Sette Sorelle sono out, a parte la Total, i cinesi hanno capito che conveniva cambiare partner, flirtando col Sud Sudan. La settimana scorsa a Juba è arrivata una delegazione di Pechino per trattare su una nuova pipeline che arriverà in Kenya. Attualmente il Sudan esporta in Cina il 60% (il 79% secondo il Financial Times) del suo petrolio, il che copre il 7% dell’intero consumo cinese di idrocarburi.
Alla costruzione della pipeline di 1400 km. verso l’isola di Lamu in Kenya parteciperanno anche la giapponese Toyota e la sudcoreana Make Group co., che investe nel Sud Sudan miliardi in infrastrutture dal luglio 2010. I giapponesi hanno partecipazioni in un reservoir posizionato vicino all’Eritrea, dotato di 7 miliardi di barili. Al business non mancano gli indiani, con tre blocchi appaltati.
Sintomatica l’inedita alleanza tra Israele e la Russia, accusati dall’Egitto di fornire armi al governo del Sud. L’Egitto è un soggetto interessato all’evoluzione geopolitica di queste aree, visto che l’oro blu del Nilo passa dal Sudan. Gli investitori europei e americani invece diminuiscono in tutta l’Africa orientale. Forse anche il Sud Sudan è destinato al caos come l’Eritrea e la Somalia, come scrive una lettrice di South Sudan Nation. Ma nel frattempo il business passa da queste parti.
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