Sugli aiuti di stato il Cav. rompe un tabù, ma non salvano l’economia
21 Ottobre 2008
Al Cavaliere l’iperbole è congeniale, perché rende la comunicazione più diretta e meno paludata, più “spiazzante” e meno scontata. Da questo punto di vista, non serve né menare scandalo né ostentare sorpresa per il Berlusconi statalista. Berlusconi ha chiamato per nome e cognome – “aiuti di stato” – le misure che tutti i governi occidentali stanno adottando e tutti gli operatori economici chiedendo. E se l’obiettivo era – come sono sicuro che fosse – quello di dare un segnale forte sulla necessità di affrontare la congiuntura con spirito pragmatico e senza tabù, Berlusconi può essere certo di averlo raggiunto.
Quanto al merito, cioè agli aiuti di Stato, non penso però che essi debbano e neppure possano divenire il baricentro della politica economica del Governo. Non tanto per non violare la rigida e restrittiva regolamentazione europea – che potrebbe cambiare o essere allentata dopo i salvataggi bancari – ma semplicemente perché nel medio-lungo periodo non aiuterebbero per nulla le nostre imprese.
Berlusconi ha avuto un ruolo storico nel rilancio dell’impresa italiana per eccellenza, la Fiat. Abituati a mercati protetti prima e rottamazioni poi, azionisti e manager del Lingotto sembravano essere divenuti incapaci di competere facendo belle auto che piacessero ai consumatori. Il “no” pronunciato dal Premier alla richiesta di un ennesimo aiuto da parte dello Stato in una fase gravissima della crisi Fiat (ottobre 2002), ha segnato l’avvio di una ristrutturazione a condizioni di mercato che ha dato frutti insperati. Un “aiutino” avrebbe prolungato l’agonia dell’industria automobilistica italiana, quel “no” è stato l’inizio del rilancio. Per il futuro del settore staremo a vedere quel che accadrà nel mondo, ma ad oggi le cose stanno così.
In questi giorni il ministro Zaia ha acquistato 200.000 forme di parmigiano reggiano e grana padano (al prezzo di circa 50 milioni di euro) da “devolvere in beneficenza”, per contrastare il calo dei prezzi di questi prodotti di eccellenza. Al di là del fatto che poche settimane fa è scoppiato lo scandalo della contraffazione del parmigiano venduto già grattugiato (una delle ragioni dell’eccesso di
produzione) e che i cinquanta milioni potrebbero meglio essere impiegati potenziando la dotazione finanziaria della “social card”, l’effetto della misura sarà doppiamente negativo. In primo luogo, perché ritarderà la necessaria ristrutturazione del settore (produzione, prezzi, qualità), in secondo luogo perché ingenererà legittime aspettative in tutto il comparto lattiero caseario. Si sono già fatti sentire i produttori di Mozzarella di Bufala Campana e presto arriveranno tutti gli altri. Qualcuno pensa che questa sia una via efficace per dare slancio all’industria agroalimentare? Certo, i trilioni di dollari dei contribuenti impegnati dai governi occidentali per il salvataggio di banche e assicurazioni fanno venire l’acquolina in bocca un po’ a tutti, ma l’economia italiana garantirà la propria crescita, sa saprà garantirla, sulle “solite” basi: innovazione, qualità, competitività. Non c’è aiuto di Stato generalizzato che tenga, passata la buriana la sfida infraeuropea e globale riprenderà da qui.
La Cassa del Mezzogiorno e ciò che ne è seguito o la vicenda Alitalia sono esempi di quanti danni abbiano fatto gli aiuti di Stato alla nostra economia: davvero qualcuno pensa che in futuro sarebbe diverso? Si fa presto a dire “statalismo”. La nuova centralità dello Stato nelle vicende dell’economia è una risposta all’emergenza finanziaria e all’esigenza di frenarne l’ormai inevitabile contagio al sistema produttivo. La natura, i limiti e le caratteristiche di questo interventismo statale finiranno per deciderne anche i risultati. Ma a guidare l’intervento dello Stato dovrebbe anche concorrere una valutazione più prudente e meno dogmatica di quanto è fino ad oggi avvenuto.
Che in questa crisi si scontino solo gli effetti della “maledetta” deregulation è questione tutt’altro che scontata. Se ne parlerà per anni (senza probabilmente trovare un accordo), ma è difficile assolvere lo Stato e condanare il Mercato se, per stare agli States, a finire nel mirino, accanto all’ingordigia di speculatori senza scrupoli e di Ceo drogati di stock option, sono state la vigilanza della Sec, la politica monetaria della Fed e il “mandato a spendere” rilasciato irresponsabilmente a Fannie Mae and Freddie Mac dal Tesoro e dal Congresso americano, che hanno trasmesso chiara e forte ai mercati l’informazione che dietro al cumulo di mutui, ipoteche, crediti cartolarizzati e credit default swap vi fosse una sostanziale garanzia pubblica (che, con le buone e con le cattive, lo Stato è stato poi costretto ad esercitare). E quando, per allargare lo sguardo anche al nostro continente, vogliamo mettere nel mirino gli accordi sui requisiti patrimoniali delle banche noti come “Basilea 2” e tutto ciò che sta a valle di essi, dobbiamo pur ammettere che, se a fare crollare il cartello di carte sono state gli intermediari privati (le banche commerciali e d’affari, le assicurazioni…) a fissare le condizioni e gli incentivi normativi per queste pericolanti costruzioni finanziarie sono state realtà (autorità monetarie, di regolazione e politiche) che stanno saldamente nel perimetro delle istituzioni pubbliche. O no?
E infine, ha davvero senso confondere la deregulation (cioè l’abolizione dei vincoli e degli ostacoli che sono arbitrariamente frapposti all’attività di impresa e che compromettono la trasparenza e la concorrenzialità dei mercati) con la “sregolatezza”, che è in larga parte derivata da una regolamentazione non assente, ma semplicemente sbagliata?
In questo scenario, mi auguro che prevalga lo statalismo “minimo” e “realista” di chi ritiene che l’intervento pubblico, in condizioni di emergenza, debba servire a rimettere sui binari del mercato un’economia deragliata per errori di regolamentazione e difetti di vigilanza. E mi auguro che i limiti del bilancio pubblico, se non la saggezza del legislatore, servano ad arginare lo statalismo “massimo”
di chi ritiene che, per stare alla metafora, ora allo Stato non tocchi, solo, la responsabilità di riaggiustare i binari e potenziare la sicurezza della linea su cui corrono i treni dello sviluppo, ma il compito assai più ambizioso di mettersi alla guida della locomotiva della crescita. Non occorre essere dei forsennati liberisti per ritenere gli “statalisti per necessità” assai meno pericolosi degli “statalisti per vocazione”. Non abbiamo dubbi che il Cavaliere rientri nella prima categoria.
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