Sul RdC no agli opposti proclami: il sussidio funziona se vincolato al lavoro (di M. Saccone)
06 Settembre 2021
L’idea che un individuo abile non trovi il modo di contribuire al valore comune con il proprio lavoro, con la propria intelligenza, mi intristisce immensamente. L’inattività endemica di parti rilevanti di popolazione è un segno di arretratezza sociale, di miseria, prima ancora che materiale, morale. Non dovrebbe essere tollerata, né da coloro che sono bloccati in questa palude abbietta, né da coloro che contribuiscono al loro sostentamento con il proprio sacrificio.
Ecco perché, pur non essendo mai stato un grande fan dei sussidi, non fui mai pregiudizialmente contrario al reddito di cittadinanza. A parte il nome caricaturale e un poco sinistro – divenuto immediatamente preda delle critiche superficiali della destra più becera e delle iperboliche mitizzazioni á la “abbiamo abolito la povertà” del populismo di sinistra – è un provvedimento politico sul quale conviene riflettere a fondo. Non già come espressione di uno Stato paternalistico-sprecone e nemmeno come strumento elettorale da prima repubblica, ma come una pratica per fornire un’occasione a tutti coloro che non partecipano attivamente alla creazione di valore. Non un’elemosina sconcia truccata da progressismo sociale, ma una leva di energia liberale.
Fornire un sostegno ai disoccupati è doveroso in una democrazia che si definisca tale, ma questi sussidi perché possano veramente creare progresso sociale e ridurre la povertà devono avere due caratteristiche: essere limitati nel tempo ed essere vincolati. Il tempo indeterminato nell’economia non esiste. Per dirla con Keynes “in the long run we are all dead”; è determinate che lo Stato trasmetta un senso di urgenza, scandisca un tracciato rapido ancorché congruo, così da suddividere con immediatezza coloro che cercano un’occasione da coloro che attendono una prebenda, i meritevoli dai fannulloni, gli onesti dai truffatori.
Lo Stato deve divenire la “controparte attiva” del cittadino inattivo: elargire risorse a fronte di un impegno allo studio, alla riqualifica, all’operatività. In questo ruolo dev’essere snello e inflessibile, da un lato rimuovendo alibi, complicazioni e ghirigori burocratici, dall’altro creando gli istituti di formazione e i percorsi di pratica in collaborazione con le istituzioni locali e sopratutto con le imprese che faticano terribilmente a trovare profili specializzati. Coloro che accedono a questo contratto di riqualifica dovrebbero essere obbligati, pena la perdita del sostegno economico, ad accettare il primo lavoro proposto – che sia naturalmente tutelato ed equo – indipendentemente dal luogo, dalla mansione o dal settore. In questo modo lo Stato è attivo, educa e crea opportunità, e il cittadino recupera la propria dignità, potendo contribuire al processo di creazione della ricchezza.
Non abbiamo bisogno dell’ennesimo referendum che paralizza il dibattito pubblico nell’ottusità politica, non abbiamo bisogno dei soliti proclami buonisti ed ideologici, ma dobbiamo riformare uno strumento di welfare esistente e malfunzionante e trasformarlo in un’efficace fonte di progresso sociale e morale.