Sul referendum il centrodestra non doveva lasciare libertà di voto

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Sul referendum il centrodestra non doveva lasciare libertà di voto

15 Giugno 2011

Primo. Ho partecipato alla recente tornata referendaria non votando. Non sempre ho scelto, nei decenni, la forma del non-voto. Certamente votai non votando nel 2005, poiché era in questione la legge n.40/2004 sulla procreazione assistita. Così sempre quando sono in gioco materie importanti. Un referendum abrogativo, infatti, non è una gara a punteggio: qualcuno vince, altri perdono. Ci rifaremo, andiamo tutti a cena. Fuori di metafora, l’abrogazione di una legge di vero peso – per il solo fatto di mobilitare tanta ostilità – porta a conseguenze di lunga durata. Se queste premono e importa il merito dei programmi e delle politiche di un esecutivo, non si gioca una partita già perduta come quella di opporre dei ‘no’ alla capacità di mobilitazione retorico-emozionale delle forze referendarie. Come la (s)proporzione tra sì e no a questo referendum ha confermato. Se preme la posta in gioco bisogna semplicemente evitare che i referendari, la loro ‘causa’ e il loro disegno, vincano. Una ‘partita’ politica ha effetti imperativi, esecutivi, che concernono tutti; non è un game tra privati o tifoserie. Ma non ho visto, se non in qualche inascoltato commentatore, questa consapevolezza.

Facile obiettare, da un punto di vista ‘ideale’, il primato delle regole e la bellezza del gioco democratico. Ma la denuncia degli aspetti deteriori della democrazia – nonostante “non vi sia niente di meglio” – è ineccepibile quando coglie la patologia dell’autorità dell’opinione (di maggioranze contingenti e mutevoli) su ragione e valore. Facile altresì obiettare – ma in prospettiva ‘realistica’ – che ora vincono gli uni ora gli altri. Se la fluttuazione delle maggioranze permette ora agli uni ora agli altri di far prevalere la propria visione delle cose, gli effetti ‘perversi’ delle decisioni prese contro ragione e valore, e sanciti da organi indipendenti dal legislativo, sono purtroppo cumulativi, difficilmente reversibili. 

Un referendum è una forma legittima di competizione politica ‘eccezionale’, fuori dalle regole con cui si lotta in Parlamento e contro i poteri di decisione della maggioranza parlamentare. Una mobilitazione referendaria usa tutte le risorse retoriche. E’ demagogica o non riuscirà. A questa efficienza non se ne può opporre una simmetrica, per ragioni evidenti; poiché si può mobilitare un fronte, e non sempre con successo, su simboli ed evidenze (come le sorti dell’umanità di fronte al rischio nucleare o i diritti di ognuno all’acqua), ma non su ragionamenti e dispositivi di legge, per definizione complessi e imperfetti. Si può, invece, coagulare (come nel 2005) sia i militanti che gli incerti e i timorosi in un fronte astensionista, con chiari inviti e ragionamenti strategici. Ma per il 12 giugno non lo si è voluto o ritenuto possibile. L’elettorato ostile ai referendari, quello dei ‘no’, lasciato senza guida non ha intravisto autonomamente gli effetti nulli del proprio voto (non ho i dati per calcolare se, astenendosi in blocco, avrebbe addirittura impedito il raggiungimento del quorum). Per primo, forse, non ha dato importanza alla posta in gioco. 

Secondo. Ma quello che più conta è che sia il superamento del quorum sia la composita maggioranza dei ‘sí’ risultano il frutto di una preoccupante confusione delle lingue, su cui i promotori della consultazione hanno fatto aggio. Anche degli amici hanno, poco consapevolmente, votato ‘sì’ con una motivazione che da tempo ha successo nel mondo degli oppositori puri o ‘impuri’ alle modernizzazioni (viabilità e trasporti, sviluppo edilizio, nucleare ecc.), ovvero: le grandi opere sono solo il portato di interessi (economici) occulti quindi vanno ostacolate con ogni mezzo. In via subordinata, per una maggioranza di moderati: se è così, è impossibile in Italia fare alcunché di impegnativo tecnologicamente ed economicamente. Demoliamo dunque leggi e programmi di sviluppo segnati da questo stigma, come ci viene chiesto, anche senza conoscerne il dettaglio o averne capito logica e obiettivi. Lasciamo, dunque, fare agli altri, ad esempio ai paesi europei produttori di energia dal nucleare; noi non siamo né così efficienti né così onesti da farlo altrettanto bene. Ed anche: lasciamo che gli enti locali gestiscano, magari male, le risorse idriche; basta non far guadagnare i profittatori su un bene pubblico. Non importa se questo perpetua le certe, e presenti, inefficienze collettive. E infine: lasciamo che la magistratura infierisca sulla politica; la classe di governo lo merita e il cittadino comune ne gode (finché non riguarderà la sua ‘parte’). Non possiamo fare diversamente, siamo italiani, poco seri ma progressisti, disonesti tuttavia onesti. 

L’argomento, suicida per il nostro ethos pubblico, è stato suggerito  a piene mani dal moralismo referendario, perché facile da accogliere e ‘non di parte’ cioè qualunquistico.

La trasversalità ‘non di parte’ dei ‘sí’ che accomuna elettori di opposti fronti politici, è stata subito notata; ed era prevista anche se tenuta nascosta. Essa si alimenta a questa deteriore opzione per l’inerzia pubblica, per il ‘non fare’ in grande, come il minor male. La scomposta, gravemente diseducativa, annosa predicazione di un Grillo (e dei suoi cento imitatori e concorrenti) e gli effetti del martellamento di stampa e dell’incontrollata azione della magistratura – che in termini di segretezza funziona peggio dei nostri disastrati acquedotti – , hanno sortito questo effetto distruttivo.  I critici della politica del massacro (antigovernativa) lo avevano pronosticato. Indurre molti italiani a sentirsi parte di un paese “inferiore” pur di farli votare contro il governo in carica, è ancora più improvvido oggi che ieri; era in effetti una tattica antica delle sinistre che, però, la compensavano con la fantasia del riscatto prossimo venturo. Vinto un referendum resta nei più lo spaesamento del giorno dopo, il sapore della bravata senza motivo né costrutto. Lo avverto nelle conversazioni degli adulti. Restano, a mio avviso, macerie; e non tocco neppure quelle (di segno opposto, ma sempre macerie) costituite dalle illusioni indotte nei giovani di poter condurre una politica ‘irresponsabile’.

Terzo. Richiedono un più di riflessione i ‘sí’ provenienti dall’elettorato della maggioranza, anche da quello ‘qualificato’; penso al caso paradossale dei ‘quattro sì’ annunciati con leggerezza, nel senso di lievità, dal presidente della regione Veneto, Luca Zaia. Sono i ‘sí’ della ‘società civile’ schierata non contro Roma e i politici (che sarebbe semplicemente stile ‘leghista’) ma, come dirò subito, contro l’essenza stessa della politica. Costituiscono, come analoghe vicende elettorali in Europa, un indizio negativo per l’intera cultura politica. Banale evocare la ‘scollatura’ paese-classe politica, una formula facile, agitata da chi spera di ricavarne vantaggi per la propria parte, o da chi non sa cos’altro dire. Tra popolazioni e politica vi è costitutivamente una “scollatura”, uno iato, o non vi sarebbe bisogno di organi di governo e di leggi, ossia di imperativi che riguardano tutti e sono vincolanti per tutti. Se la mera comunità si autogovernasse, cioè fosse ‘politica’, non esisterebbero né rappresentanza né ordinamenti; non esisterebbe il “sovrano”. Il “popolo sovrano”, in quanto sovrano, non è la mera popolazione né le sue comunità; queste si trascendono nella sovranità, tramite appunto una Rappresentanza. Il provvedere al bonum commune, che è l’atto politico per eccellenza, è intrinsecamente altra cosa dalle convinzioni personali o domestiche o di ceto su ciò che “bisognerebbe fare”. Così, un passaggio cruciale di ogni entità sovrana, persino non democratica, è ottenere dai governati la comprensione (intellettiva) dei propri atti e il consenso, senza dover rinunciare al calcolo e alla promozione di ciò che è bene per il maggior numero. Sappiamo tutto questo.

Non sorprende allora la “scollatura”, sempre latente; ma colpisce nel caso particolare la mancata interiorizzazione, nella maggioranza del Paese (ovvero del corpo politico ‘rappresentato’ dal governo in carica) delle finalità razionali dei dispostivi di legge che sono stati sottoposti al suo giudizio.

Coerente con tale vuoto di comprensione/consenso è, allora, che nessuno dai ‘vincitori’ sembra preoccuparsi di dover domani ‘rispondere’ delle conseguenze del suo voto. Il risultato oggi celebrato è “la riconquistata libertà del cittadino” per se stessa e fine a sé. La stessa proiezione utopica di qualche minoranza (la liberazione dell’Italia e dell’umanità dal nucleare) è solo ‘mistico’ enthusiasm; prima e poi ci si ammucchia in decine di migliaia al concerto alimentato dall’energia elettrica prodotta dei fornitori francesi o svizzeri. Perché? Perché la “libertà riconquistata” è libertà tecnicamente non-politica o anti-politica (parlo dell’essenza del Politico, non dei “politici”); quindi in sé irresponsabile, nonostante le parole di responsabilità e sollecitudine per l’umanità e i diritti.

Ma perché, ancora? Imitiamo il candore e la petulanza dei bambini. Si possono azzardare alcune ragioni. La prima e più semplice: leggi laboriosamente calcolate (il cd. ‘legittimo impedimento’ godeva anche del malizioso favore della Corte costituzionale) restano  estranee alla riflessione comune, che si lascia più facilmente conquistare dalla declamazione del finto ‘uomo qualunque’, à la Di Pietro. La seconda: la stessa maggioranza di governo si mostra composta da singoli e da gruppi che non hanno il coraggio e il rigore, prima ancora che l’interesse, di sostenere e anzitutto capire ciò che direttamente o indirettamente votano [è il caso della vicenda esemplare di Fini e dei ‘finiani’] . La terza e congiunturale: da parte del Pdl e del premier l’aver “lasciato libertà” ai propri membri ed elettori è stata scelta ‘realistica’, per attutire l’effetto dei comportamenti elettorali di uomini della maggioranza e dell’elettorato. Ma ha favorito il ‘liberatorio’ disimpegno collettivo dalla comprensione delle buone ragioni del legislatore, sempre difficili da apprezzare (e non, anzitutto, per ragioni linguistiche o tecnico giuridiche, ma autenticamente politiche), cioè delle proprie ragioni. In questo esercizio ‘liberatorio’ (a destra) si è confuso il referendum – un atto politico – con un sondaggio, anzi un gioco, che permetteva di rivelare le private opinioni. Che si potesse cadere così ingenuamente nella trappola politica preparata dai referendari sembra impossibile.

D’altronde, se non solo opposizioni e movimenti (e giornali) ma anche chi governa non difende e motiva con forza la volontà del Parlamento, se non educa e mobilita il proprio elettorato anzitutto alla comprensione, poi alla difesa, delle leggi di cui ha la responsabilità, lo squallore politico (mascherato dall’ennesima kermesse) è certo. Chi in politica è responsabile, ovvero è la Politica, non può permettere senza lottare che abbiano successo i demagoghi, quelli veri.