
Sul referendum l’intellighenzia ha preferito le barricate al giudizio critico

21 Giugno 2011
Ricordate don Saverio Petrillo? Era il pazzariello de L’oro di Napoli, mirabilmente interpretato da Totò nel film omonimo di Vittorio De Sica del 1954: in abiti sgargianti e una piccola band al seguito, annunciava al rione l’apertura di un nuovo negozio e ne esaltava le merci. A vedere le reazioni pubbliche e private al referendum del 12 giugno, si è avuta l’impressione che gli intellettuali, i professionisti della ricerca, i cattedratici, nel nostro paese, fossero divenuti i “pazzarielli” dello schieramento che va da Bersani a Vendola, passando per Di Pietro. Il dubbio “ubi est veritas?”, che è il sale della democrazia liberale, per quanto riguardava i quattro quesiti, poteva albergare nelle menti del giornalaio, del barista, dell’antennista, ma cercarlo nei docenti e nella maggior parte degli operatori della carta stampata era più difficile della classica ricerca dell’ago nel pagliaio. Il Cavaliere dice talora le cose giuste al momento (e nel contesto) sbagliato ma un fatto è certo: la scuola pubblica in Italia, e soprattutto le Facoltà umanistiche, da tempo sono diventate una fucina d’intolleranza e di disinformazione. “La funzione specifica della scienza − scriveva il più grande pensatore politico del XX secolo, Max Weber − è quella di trasformare in problema ciò che è convenzionalmente evidente”. La funzione dei chierici italiani sembra quella, opposta, di trasformare i giudizi di valore in giudizi di fatto: ciò che non piace, perché ispirato a idealità diverse da quelle in cui si crede, diventa un disvalore, una minaccia che pende sulla collettività. È il vizietto inguaribile della nostra cultura: i valori del mio avversario sono interessi e i miei interessi, grazie alla bacchetta magica dell’ideologia, che Marx chiamava “falsa coscienza”, diventano valori.
Qualche giorno prima del referendum avevo inviato ad amici e colleghi universitari una delle schegge di liberalismo che vado pubblicando su L’Occidentale nella rubrica Dinoleaks. Vi facevo rilevare che non aveva molto senso sostenere, come aveva scritto il giurista Lorenzo Cuocolo sul Secolo XIX: “Non conta votare sì o votare no, quello che è importante è andare a votare, esercitare il proprio diritto-dovere di contribuire alla democrazia del paese”. Infatti “se sul mercato ci sono soltanto sette tipi di moto e nessuna di esse piace al consumatore, l’astensione dall’acquisto non stimola l’inventività dei produttori e non favorisce gli investimenti su un nuovo modello?”; e se “nel mercato della politica, ciò che passa la casa non è gradito − si tratti di partiti o di quesiti referendari − non si promuove la democrazia contribuendo, col non voto, alla nascita di nuovi soggetti politici? Vogliamo togliere all’uomo qualunque anche il diritto di non stare al gioco dei burattinai dell’establishment?”.
Un docente di filosofia (cattolico osservante) mi aveva risposto indignato: “come fai, da buon liberale, a non capire che il legittimo impedimento è una solenne presa in giro degli italiani onesti” e che “occorre mettere freno alla cupidigia di chi, con la fornitura d’acqua toglierebbe un’altra parte consistente di soldi alle tasche degli italiani pazienti?” Un sociologo, un vecchio e stimato amico, aveva detto in sostanza le stesse cose, pur dichiarandosi disgustato “dall’unanimità espresso-repubblica-ilfatto che mi circonda e che mi deprime nonostante il mio restare uomo di sinistra”. Un prestigioso storico romano della vecchia guardia − una razza, in via di estinzione, di studiosi che potevano pure schierarsi politicamente ma senza rinunciare alla lucidità dello sguardo − in una conversazione privata, aveva confessato di votare quattro sì non perché convinto dei quesiti referendari − a suo avviso una “puttanata” − ma per assestare il colpo di grazia a Berlusconi.
Non sostengo certo che nelle materie sottoposte a referendum, la ragione e il torto si potessero dividere con un taglio netto, per citare l’ironico aforisma dell’immortale don Lisander (Manzoni). Non ero andato a votare non per raccogliere l’invito incauto di Berlusconi ad andare al mare − si vede proprio che il Cav. è un “lumbard”, se fosse nato a Napoli, dove di scongiuri iettatori se ne fanno migliaia al giorno, si sarebbe ben guardato dal ripetere un gesto che, in altri tempi, aveva segnato la fine di una stagione politica, quella craxiana − ma perché indignato dalle sentenze della Corte di Cassazione e della Costituzionale che avevano dichiarato, ciascuna per la parte di sua competenza, ammissibili i quattro quesiti, almeno nelle forme in cui venivano proposti ai votanti. Il problema è un altro: l’uomo di scienza ha il dovere di valutare il pro e il contro delle questioni che entrano nel dibattito pubblico o quello di gridare più forte dei “politici di professione”, che fanno bene o male il loro mestiere, aiutandoli a gettare benzina sul fuoco delle passioni?
L’Istituto Bruno Leoni ha svolto un interessante lavoro di documentazione sulla questione delle acque. Se ne sono occupati studiosi e saggisti del calibro di Oscar Giannino e giovani ricercatori come Matteo Repetti, autore di un breve, chiarissimo, intervento Servizi pubblici locali: così va il mondo, pubblicato sul blog dell’Istituto. Sono state prese in considerazione, nell’asfissiante retorica pluralistico-dialogico-buonista “che ci circonda e ci deprime” queste “ragioni degli altri”? In realtà, è assai più facile attribuir colpe che dimostrare errori. Se dico che sei un mascalzone, o comunque un complice inconsapevole di politici di malaffare, me la cavo, per celiare col linguaggio del filosofo inglese John L. Austin, con un “atto linguistico performativo” che non descrive la realtà ma la produce: in questo caso, assesta (metaforicamente) un pugno nello stomaco dell’interlocutore o, se si preferisce, gli fa indossare un’insultante divisa (servile) in cui non può certo riconoscersi; se dico che hai commesso un errore, invece, sono obbligato, da un lato, a dimostrarti dove sbagli e perché e, dall’altro, a farti vedere come stanno le cose.
Faceva rilevare J. A. Schumpeter che l’elettore medio non dedica ai programmi dei partiti per i quali vota neppure la centesima parte del tempo che impiega a informarsi sulle partite di baseball. I colleghi universitari che ho avuto modo di incontrare, nei giorni precedenti la votazione, non hanno fatto neppure quel minimissimo sforzo. A loro bastava sapere che le leggi di cui si chiedeva l’abrogazione erano state proposte dal governo di centro-destra per recarsi alle urne, galvanizzati dalla “revanche” della amministrative. Invitavano parenti, amici e studenti a votare i quattro sì, avvertendoli che le norme liberticide erano state imposte da Ronchi, Berlusconi, Alfano & C. e chiudendo il discorso con un trionfale “E ho detto tutto!”, come Peppino, nel film di Camillo Mastrocinque Totò, Peppino e la malafemmena (1956).
Ribadisco, i quesiti referendari erano mal formulati ma riguardavano, come sempre in politica, materie oggettivamente controverse e tali da giustificare le più diverse posizioni. Per quanto mi riguarda concordo, a proposito dell’acqua, con le amare riflessioni di Piero Ostellino (v. "Il dubbio" di sabato scorso): “Il referendum sull’acqua lascia le cose come stavano. Sedicimila concessionarie, partecipate e controllate dai Comuni ma, di fatto, nelle mani delle clientele di partito. Avevano già aumentato le tariffe e gestiscono una rete inadeguata e colabrodo senza avere i soldi per migliorarli. Le vecchie municipalizzate, se non altro perché soggette a regime pubblicistico, erano meglio. La privatizzazione della distribuzione, comunque, assegnabile per gara, e, poi, controllata dai Comuni, puntava a cercare i soldi sul mercato”. Ed anzi vado oltre: la filosofia delle liberalizzazioni di Giuliano Amato, di Franco Bassanini, di Pier Luigi Bersani mi ha fatto rivalutare il liberalismo “statalista” della Destra Storica, quella che cadde sul progetto di nazionalizzazione delle rete ferroviaria. (E, a proposito, di FF. SS., c’è qualcuno che potrebbe sostenere, in buona fede, che la liberalizzazione in questo settore ha migliorato i servizi? Non poter convertire un biglietto regionale in un biglietto nazionale, per l’avvenuto scorporo del vecchio ente, rende più semplice la vita dell’utente?). La concorrenza, come l’ho capita leggendo i classici del liberalismo, è una risorsa sociale ed economica quando è effettiva: nel caso dei monopoli naturali, la concorrenza si sposta dal consumatore al produttore e diventa concorrenza, mediante asta pubblica, tra aziende disposte ad accollarsi la fornitura di servizi pubblici. Nella spaventosa crisi di sistema che il paese attraversa da anni, con le connivenze tra politica e Confindustria aumentate a dismisura con la fine dei vecchi partiti e della Prima Repubblica, meraviglia che ad aggiudicarsi l’appalto siano i soliti noti? È questo che avevano in mente gli Hayek e i “liberisti selvaggi” che, nell’immaginario collettivo dei professori di ogni ordine e grado, su Famiglia Cristiana e nello sconfinato arcipelago della cultura antagonista, hanno quasi sostituito Hitler e Pinochet?
Comunque, per ritornare ai quesiti referendari, alle mie “ragioni” se ne potevano ben contrapporre altre e, del resto, bastava recarsi in una qualsiasi Libreria Feltrinelli per trovare centinaia di pubblicazioni sui temi sottoposti agli elettori, firmate da più o meno autorevoli sostenitori del sì. Il dato davvero preoccupante, invece, è stato il rinnovarsi, come da copione, del “tradimento dei chierici”, la loro attitudine a spalmare su un dibattito pubblico, che, soprattutto in tema di referendum, dovrebbe essere trasversale e super partes, la pece di un moralismo rabbioso e aggressivo.
Gli “intellettuali”, i professori, i ricercatori sono stipendiati dallo Stato perché espongano dalle loro cattedre tutti gli aspetti delle grandi questioni che sono al centro dell’etica pubblica e del dibattito politico (un abito professionale, questo, che al di fuori dell’aula, un tempo si conservava anche nei loro articoli, spesso vere e proprie lezioni rivolte ai lettori dei quotidiani: gli esempi eccelsi di Nicola Abbagnano, di Norberto Bobbio, di Guido Calogero, di Nicola Matteucci, di Rosario Romeo, per limitarci a loro, docent). La loro è la condizione privilegiata di chi non deve render conto a nessuno della propria indipendenza spirituale − e semmai paga tale indipendenza in termini di mancati inviti a intervenire sui giornali o nei teatrini televisivi della politica e del commento di costume: poca cosa rispetto alla sicurezza del 27 del mese. Sembra, però, che, nel nostro paese e nella nostra accademia, la libertà sia un fardello anche quando è gratuita.
A qualche collega, decisissimo a dare i quattro sì, avevo proposto un incontro (da tenersi sia prima che dopo la prova referendaria), anche in forma di seminario di studio, per discutere serenamente, e con una buona documentazione sul tavolo, problemi come la “privatizzazione”(sic!) delle acque, il legittimo impedimento, il nucleare etc. Neppure uno che abbia raccolto il guanto di sfida! A questo punto non mi è restato che consigliare la lettura de La scienza come professione (1918) di Max Weber. Vi si legge, tra l’altro, “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’.Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia ai propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza − per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo − per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni politiche invece di recare loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche.”
Consigli al vento giacché quasi tutte le “culture politiche” del nostro paese affidano agli educatori il compito di formare “buoni cittadini” prima ancora che “cittadini informati” e, se le conoscenze non giovano allo scopo, non esitano a dirsi che la verità può essere, in certi casi, nociva alla paideia: in quanto “rivoluzionaria” o “reazionaria”, a seconda dei gusti e delle acculturazioni ideologiche.