Sulla finanza pubblica il governo cambi passo: è ora di crescere
07 Giugno 2011
E’ necessario che il governo cambi passo e che modifichi concettualmente, prima che nei numeri, la manovra di finanza pubblica per il periodo che ci sta di fronte. Ora bisogna accompagnare il rigore con le politiche pro crescita, fra cui campeggia la riduzione della fiscalità. La manovra di rigore per la finanza pubblica non va modulata operativamente su tre anni, ma su due, del programma triennale, che adesso deve venire varato, quello per il 2012-1014. Infatti solo il 2012 e il 2013 fanno parte della legislatura XVI legislatura, che è quella attuale. Il terzo anno ossia il 2014 riguarda la XVII legislatura, che verrà eletta nella tornata elettorale dell’aprile del 2013.
E’ noto che questo governo ha presentato nel Documento di economia e finanza per il 2011, un Programma di stabilità, di portata storica, che comporta il pareggio virtuale del bilancio nel 2014. In base a tale programma, in tale anno, il deficit sarà lo 0,2% del Pil. Inoltre viene proposta una costituzionalizzazione della regola del bilancio in pareggio, che dovrebbe consolidare tale obbiettivo. La applicazione costante di tale regola comporterà nel 2026 il raggiungimento del rapporto debito/Pil del 60% e nel 2040 l’azzeramento del nostro debito pubblico. La manovra residua per raggiungere tale traguardo triennale è di 40 miliardi, circa 2, 4 punti di Pil. Il deficit tendenziale di bilancio che deriva dalle manovre sin qui attuate sarà nel 2012, nel 2013 e nel 2014 del 2,7-2,6% del Pil.
Questi numeri indicano due cose: che il pareggio del bilancio è a portata di mano, se si attua una manovra correttiva biennale di 18 miliardi di euro, che porterà il livello tendenziale del deficit del 2014 allo 1,2% circa e che è stata portata a termine la manovra di rientro, nel tetto del 3%. Il deficit del 2,6% genera una situazione normale, con riduzione graduale, anche se lenta, del rapporto debito/Pil purché si realizzi un tasso di crescita del Pil non inferiore allo 1,5% annuo. Esso infatti, con un tasso di inflazione dello 1,8% del Pil dà luogo a un tasso di crescita nominale del 3,3% del Pil che, automatica,ente, con un deficit del 2,7% del Pil, determina una riduzione del rapporto fra debito e Pil dello 0,6 (la differenza fra i due tassi) moltiplicata per il rapporto debito Pil: nel nostro caso, attualmente sul 119%.
Ecco così che occorre diluire nel tempo la manovra di 40 miliardi , effettuando, in questa legislatura, solo la parte che le compete, che è di 18 miliardi, lasciando il resto a chi vincerà le prossime elezioni, posto che creda nella regola del pareggio del bilancio ed effettuare il programma pro crescita, cominciando dalle imposte e dai contributi sociali. La effettuazione, adesso, della manovra di bilancio di 40 miliardi per il triennio 2012-2014 genererebbe una psicosi di deflazione. Inoltre occorre mettere alla prova la sinistra, con riguardo al programma post elezioni politiche del 2013. Sommando le manovre già fatte dopo il 2009 con una ulteriore di 40 miliardi, nella presente legislatura, si attuerebbe una riduzione del deficit dal 5,3 del 2009 allo 0,2 del 2015, di oltre 5 punti, in cinque anni. Una manovra di 40 miliardi nel triennio è una cifra enorme, in quanto non potendo né volendo aumentare le entrate, essa va fatta tutta tagliando le spese. E non tutte le spese sono tagliabili. Esse sono circa il 50% del Pil, percentuale elevatissima, che si spiega con il fatto che abbiamo un enorme stato del benessere (spesa sanitaria 7% del Pil, spesa pensionistica 15,3% di cui il 5,5% non coperta da contributi, spesa per disoccupazione e assistenza 2%, in totale 24,3%, circa metà della spesa pubblica totale) e un 5% di spesa per interessi sul debito pubblico.
I 40 miliardi di euro, pari al 2,4% del Pil comportano un taglio percentuale di spese di circa il doppio, cioè del 4,8% in un triennio. Infatti essendo le spese metà del Pil ogni percentuale di Pil di tagli di spese, sul loro totale diventa una percentuale doppia. Un taglio di queste dimensioni pur articolato con analisi pazienti di spending reviews, appare contrario ai principi per cui il bilancio non deve interferire troppo con l’economia, propri di uno stato liberale. La manovra di grande stimolo e grande deflazione, appartiene alla cultura tecnocratica neo keynesiana, non a una cultura economia di mercato, basata sull’assunto che, comunque, chi manovra i bilanci ha conoscenze imperfette e, salvo nelle emergenze, deve pertanto evitare manovre troppo ambiziose. Appare opportuno, dunque, varare ora una manovra limitata di 9 miliardi all’anno nel biennio per il 2012 -2013 e abbinare la politica di crescita a quella del rigore. E ciò comporta liberalizzazioni, come quella degli orari dei negozi, privatizzazioni come quella dei servizi pubblici locali, deregolamentazioni come quelle delle macchinose leggi urbanistiche, edilizie, degli appalti e dei lavori pubblici; e soprattutto riduzioni fiscali.
Passo ora a indicare come potrebbe essere articolata la manovra di taglio fiscale, che si dovrebbe lanciare in questo periodo. Essa dovrebbe riguardare le imprese, al fine di ridurre la pressione fiscale su di esse, derivante dalla somma dell’imposta sul reddito e l’Irap, dovrebbe riguardare il lavoro, per accrescere la produttività e l’occupazione, riducendo i costi fiscali del lavoro e stabilendo riduzioni di imposte per i compensi salariali legati alla produttività e dovrebbe riguardare le famiglie, sopratutto tutto con riguardo ai nuovi nati. Mi voglio qui soffermare soprattutto sui primi due aspetti. Per quanto riguarda le imprese, appare importante ridurre di 5 punti l’Ires, ossia l’imposta sul reddito delle società, che è attualmente del 27,5% , ma include nella base imponibile anche il 70% degli interessi passivi in eccesso agli attivi rapportati con il Mol (margine operativo lordo) sicché il suo peso complessivo è ben superiore. Esso può essere valutato in 6 punti aggiuntivi. Il peso effettivo dlel’Ires sugli utili netti è attorno al 34%. E ad essa si aggiunge l’Irap, che colpisce l’utile lordo e i costi del lavoro.
Nel complesso, mediamente, l’Irap ha una pressione del 13% sul reddito di impresa. In totale di media una società in Italia, dunque, paga sui suoi utili netti il 34%+il 13% ossia il 47%. Ma le imprese con molti addetti e fortemente indebitate hanno un onere che sfiora il 60% . E’ urgente ridurre questa fiscalità e toglierle alcuni di suoi effetti distorsivi, ai fini del rilancio della crescita. Oltre a una riduzione di 5 punti dell’aliquota dell’Ires, appare necessario dividere in due l’Irap, trasformandola in una imposta regionale sui redditi lordi delle imprese e in un contribuito sanitario regionale, gravante sui costi del lavoro. Ocorre notare che l’imponibile Irap per i costi del lavoro include sia le retribuzioni lorde che i contributi sociali gravanti su di esse, che sono il 40% circa. Quindi, se il tributo ha una aliquota del 4,5%, esso in effetti incide sul lavoro per il 4,5+40% di 4,5, ossia lo 1,8%, in totale il 6,3% . L’Irap sui costi del lavoro, trasformata in contributo sanitario regionale, andrebbe detratta dall’imposta sul reddito di impresa, sia con riguardo alle imprese tassate in Ires che a quelle tassate con l’Irpef. Ciò comporterebbe una riduzione dei costi del lavoro di media di 2 punti, ma di molto di più per le imprese ad alta intensità di lavoro. E consentirebbe alle Regioni di modulare l’aliquota, fra il 5% e livelli inferiori, in relazione al fabbisogno di mezzi per il servizio sanitario nazionale.
D’altra parte, priva della componente sui costi del lavoro, l’Irap residua, come dicevo, diventa una imposta regionale sui redditi lordi di impresa, che può essere modulata in relazione alle esigenze di sviluppo economico. Inoltre le imprese estere potrebbero detrarre tale tributo dall’imposta che pagano nel paese di origine sul reddito di impresa, cosa che non possono fare per l’Irap, dato che essa non è una imposta sul reddito. Il costo complessivo di queste proposte si aggira sugli 11 miliardi annui. In Italia vi sono agevolazioni nelle varie imposte per 140 miliardi di euro. Una riduzione del 7% di tali agevolazioni, può dare gli 11 miliardi di euro, che servono per la copertura di questa manovra.
Con riguardo al lavoro, penso che la riduzione fiscale si debba articolare in tre tematiche: per i giovani, mediante una riduzione contributiva per il nuovo contratto di apprendistato, che non dovrebbe comportare problemi di copertura trattandosi di nuove assunzioni, per i lavoratori delle imprese con contratti a tempo indeterminato mediante la proroga e la estensione della riduzione fiscale per il salario di produttività, con un costo che può essere valutato in 0,5 miliardi annui, trattandosi in gran parte di incrementi di retribuzioni, derivanti dai nuovi contratti aziendali decentrati e mediante la abolizione dei contributi sociali per gli anziani che hanno superato i 65 anni, godono di una pensione di vecchiaia regolare, e svolgono un lavoro autonomo o con contratti della legge Biagi, sostituendo i contributi pensionistici vigenti con un semplice contributo di solidarietà del 5% che dovrebbe cessare al 75esimo anno di età.
Una norma di questo genere farebbe emergere molto lavoro sommerso, così come del resto quella per i giovani, sull’apprendistato, qualora questo contratto sia favorito dal punto di vista contributivo. Occorre notare che l’aumento del tasso di crescita del Pil derivante da politiche strutturali di incentivo all’offerta genera, automaticamente, una riduzione del rapporto debito Pil e facilita la politica di rigore mirante al pareggio del bilancio, perché ne contrasta gli effetti depressivi della domanda globale, che derivano dalla riduzione del debito pubblico. Sarebbe stato improvvido occuparsi della crescita prima di avere messo in sicurezza i conti pubblici. Ma ora che questo è accaduto, è venuto il momento di cambiare passo.