Sulla Finanziaria la doccia fredda degli osservatori internazionali

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Sulla Finanziaria la doccia fredda degli osservatori internazionali

08 Ottobre 2007

Messo a punto il disegno di legge finanziaria per il 2008, il Governo ha atteso fiducioso il giudizio degli analisti internazionali, agenzie di rating, grandi testate economiche, istituzioni comunitarie.

Dal taglio dell’Ires alla sforbiciata sull’Irap fino alla riduzione dell’Ici per alcune fasce di contribuenti, di primo acchitto il tax cut di Prodi e Padoa Schioppa non poteva non strappare il plauso degli osservatori. In più, il rispetto dei parametri europei sull’indebitamento sembrava mettere a riparo dalle critiche dei “rigoristi”.

Il gioco è durato poche ore, ossia finché non è stato chiaro anche agli osservatori esteri che la realtà dei fatti era meno rosea di quanto una iniziale sensazione suggeriva. E così, incassati i primi giudizi favorevoli ma frettolosi di Financial Times e Wall Street Journal, ecco la doccia fredda delle agenzie di rating. Nessuna variazione del giudizio o dell’outlook, nessun commento positivo sulla manovra, nessun ripensamento rispetto alla decisione, circa un anno fa, di degradare il rating a lungo termine della Repubblica Italiana. Per Standard & Poor’s e Fitch, una manovra di bilancio che fissa a 2,4% l’obiettivo di deficit/Pil 2007 e a 2,2% quello del 2008, a fronte di disavanzi tendenziali pari a 1,9% e 1,8% del prodotto interno lordo, è parte dello stesso film che la riottosa coalizione di centro-sinistra sta scrivendo da un anno e mezzo. “La debolezza dell’esecutivo nei sondaggi, la mancata urgenza attribuita al risanamento fiscale e la natura indisciplinata della maggioranza rendono improbabili significative riforme strutturali della spesa nell’attuale legislatura“, afferma S&P’s.

Ciò che gli analisti europei non perdonano a Prodi è l’uso dissennato del tesoretto. La domanda più ricorrente è riassunta dalle parole del capo economista di una primaria banca europea: “How can one explain that despite higher tax receipts, the government has left its public deficit targets unchanged?“. La risposta è semplice: l’esecutivo ha già deciso di spendere il gettito aggiuntivo atteso per quest’anno e per il prossimo.

Senza interventi sulla spesa pubblica di naturale strutturale – dicono da Moody’s – si ritiene che nel lungo periodo possa rivelarsi difficile affrontare il disavanzo di bilancio”. Come a dire, il governo-cicala canta ora che la dinamica delle entrate è favorevole, ma che accadrebbe se l’inerzia dovesse cambiare? Senza interventi sulla spesa strutturale, non c’è “riqualificazione della spesa” (per usare il termine edulcorato del governo). La Finanziaria 2008 attinge da minori spese 4,6 degli 11 miliardi della manovra Eppure, la spesa corrente primaria è confermata al 39,9% del Pil quest’anno per poi avanzare frazionalmente al 40% il prossimo e arretrare al 39,3% solo nel 2009. Insomma, cambia poco.

Dall’Economist di venerdì scorso, il giudizio più impietoso: chiedere a questo debolissimo governo – in balia di sindacati e vested interests (interessi costituiti) – le riforme ed un robusto downsizing della spesa sarebbe “too much”, semplicemente troppo.

In breve, il sentimento più comune tra gli addetti ai lavori d’oltre confine è la rassegnazione. Il buon andamento dei conti pubblici è il frutto di una positiva congiuntura economica, la migliore degli ultimi anni, ma Prodi e il centrosinistra non riescono ad andare oltre l’inerzia. Anzi, la contrastano, fissando obiettivi di deficit peggiori di quelli che si sarebbero raggiunti a politiche invariate. Più fanno e più le cose peggiorano. E se questi obiettivi rispettano comunque i parametri del Patto, non si ha una giustificazione, ma la prova della natura ragionieristica di queste regole. Un tempo Prodi le chiamava stupide, oggi le usa come foglia di fico.

Ma ciò che trasforma la rassegnazione degli analisti internazionali in commiserazione è la totale confusione e mancanza di coerenza del processo di approvazione dell’Italy’s budget. La procedura è lunga e irrazionale, in quattro mesi di discussione politica e di sessione parlamentare il testo elaborato dal governo perde la bussola della coerenza, viene stravolto e annacquato, nei numeri generali e nelle misure specifiche: richieste di spesa ulteriore, stralcio di norme, rinvio di provvedimenti, misure ad personam e ad settore.

Da mesi e mesi, è in atto una battaglia tra chi punta a portare al 20% la tassazione sulle “rendite finanziarie” e chi, sicuramente tra l’opposizione ma anche nel centrosinistra, vuole che l’aliquota del 12,5% non si tocchi. Questo tam-tam disorienta gli operatori internazionali, che, nel formulare i loro piani d’investimento per l’Italia, non sanno a quale livello saranno tassate le attività finanziare nei prossimi sei o dodici mesi.

Nel giorno dell’approvazione del ddl da parte del Consiglio dei Ministri, si è rasentato il ridicolo. Alcune agenzie di stampa riportavano la notizia secondo cui il premier Prodi stesse lavorando ad un compromesso, portare al 18,5% – non più al 20% –   l’aliquota sui capital gain, lasciando però al 12,5% il prelievo su obbligazioni e titoli di stato. Poche ore dopo arriva la smentita del portavoce del governo: nessun aumento. Peccato che, quasi contestualmente, i leader della sinistra massimalista abbiano annunciato di considerare l’aliquota al 20% delle attività finanziarie un elemento imprescindibile per l’approvazione parlamentare della finanziaria.

This confusion will do little to instill investor confidence”, scrive il Wall Street Journal. Giudizio fin troppo pacato.