Sulla lettera dei 62 e sui ponti da costruire
27 Settembre 2017
Quindici anni fa, negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, usciva il libro di Pietro Prini “Lo scisma sommerso”. L’autore puntava il dito contro la rigidità istituzionale e dottrinale della chiesa cattolica, che a suo dire avrebbe creato una separazione strisciante, una silenziosa frattura (lo scisma sommerso, appunto) tra le coscienze dei fedeli, i loro comportamenti reali, e gli insegnamenti della Chiesa. Non cito il libro per confutarne le tesi a tanti anni di distanza (il divario di cui parla Prini non lo ritengo nuovo, non è nato con la modernità, perché il Vangelo è stato “scandaloso” fin dall’inizio, e l’imitatio Christi non è mai stata facile), ma per sottolineare una parola di quel titolo: sommerso. L’aggettivo mi appare più importante del sostantivo, che ritengo forzato ed eccessivo. Perché?
Le divisioni, nella Chiesa, sono sempre esistite, e quelle che viviamo da tempo nel mondo occidentale, radicate nel Concilio Vaticano II, non sono state, fin qui, tanto gravi e laceranti da destare preoccupazione per la sopravvivenza della Chiesa cattolica, e della sua capacità di tenere insieme i credenti di tutto il mondo. Per gli osservatori esterni si tratta semplicemente di un trasferimento, all’interno del cristianesimo, delle sempreverdi categorie di destra e sinistra: alla destra stanno a cuore i principi non negoziabili, in primo luogo la difesa della vita umana; alla sinistra i poveri, i migranti, l’ambiente. Non è così semplice, e le sfumature, le diffidenze, l’inconciliabilità di visioni e interpretazioni hanno radici antiche e complesse, sono teologiche e dottrinali, ma anche storiche, e si intrecciano a movimenti, figure carismatiche di fondatori, sacerdoti, filosofi, politici. La distinzione ha però una sua forza semplificatrice che in parte funziona, e soprattutto viene ancora molto utilizzata.
Ammettiamo pure, dunque, che quel confine esistesse, e che ogni volta che, nella presenza pubblica, chi governava la Chiesa (in particolare quella italiana) faceva pendere la bilancia da una parte più che dall’altra, si producevano scossoni e malesseri che richiedevano aggiustamenti. Gli aggiustamenti però puntualmente arrivavano, grazie a una tradizionale prudenza, a quella accorta sapienza diplomatica per cui i principi della Chiesa erano famosi. All’epoca in cui Prini lanciava il suo allarme, nessuno tentava di rimuovere o far tacere il cardinale Martini, per fare un esempio, né di isolarlo. E poi c’era il Papa, sempre indiscusso e indiscutibile, anche quando ad alcuni, magari a tanti, non piaceva. Le divisioni, dunque, restavano sommerse, il temuto “scisma” in realtà non si verificava, si limitava a sommovimenti e brontolii interni.
La preoccupazione, oggi, riguarda proprio l’aggettivo sommerso. Il distacco, le critiche, lo scontento di una fondamentale quota di credenti sono ormai visibili a occhio nudo, di sommerso non c’è più niente. La pentola scoppia. Dopo i famosi “dubia”, avanzati da persone di indiscutibile fede e di grande levatura culturale, c’è oggi la lettera dei 62, le cui firme più note sono quelle di Ettore Gotti Tedeschi e del vescovo Bernard Fellay, superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, cioè i lefebvriani. Ma basta dare un’occhiata al web, vedere i commenti dei fedeli ad alcune scelte del Vaticano, ad alcune esternazioni, e anche ad alcuni silenzi, per capire che la macchia scura della scontentezza e delle perplessità si allarga ogni giorno di più. Il rischio di una frattura vera, nient’affatto sommersa, non si può sottovalutare.
Si parla molto, e giustamente, di costruire ponti, e non barriere: ma i primi ponti vanno costruiti dentro la Chiesa stessa, perché le fratture, se non si possono eliminare, si possono ridurre. Prima che, come scriveva Auden, “si spalanchi un abisso che nessun abbraccio possa scavalcare”.