Sulla “manovra” le Regioni giocano sui numeri e fanno cattiva politica
16 Giugno 2010
La diatriba delle Regioni con lo stato per il decreto di finanza pubblica, che vede come protagonisti Vasco Errani, presidente della Regione Emilia Romagna e Roberto Formigoni, presidente della Regioni Lombardia è per molti versi assolutamente anomala. Lo è innanzitutto dal punto di vista istituzionale.
Infatti è vero che il Ministro Tremonti non ha consultato per i tagli alle Regioni, quello strano organo para politico che è la Conferenza Stato Regioni. Ma è anche vero che essa ha fatto di tutto per non farsi consultare perché si presenta, nel suo vertice istituzionale, come un organismo di parte, di opposizione preconcetta al governo. E ciò per il semplice fatto che al posto di presidente è stato mantenuto Vasco Errani, un ex dirigente del PCI emiliano, che fa parte della direzione nazionale del PD.
Non ho nulla contro i personaggi politici di parte. In democrazia hanno il loro ruolo. Ma bisognerà pur tenere presente che la maggioranza delle Regioni è governata dal PDL con la Lega Nord o con altre forze politiche o da solo. E non è pertanto logico che a rappresentare l’insieme delle Regioni vi sia un personaggio dell’opposizione, con marcate caratteristiche partigiane. Il testo che egli, presumo con la collaborazione di altri, ha scritto per protestare contro questa manovra e le sue dichiarazioni si inseriscono benissimo a fianco dello sciopero generale della CGIL indetto da Epifani e appena avvenuto, e del grande comizio di Bersani previsto per sabato.
Mi preme di far rilevare che, comunque, esiste un Ministro per le Regioni, nella persona dell’onorevole Fitto. E la sede istituzionale a cui dirizzare le proposte, che dovrebbero sgorgare dalla protesta non è il Ministero dell’economia, ma il Ministro per le Regioni. Secondo la Conferenza Stato-Regioni Tremonti, prima della manovra, doveva consultare la Conferenza Stato-Regioni. Ciò è molto dubbio e comunque si tratta di uno sbaglio di mera diplomazia politica.
La Conferenza Stato-Regioni invece commette un grave errore di procedura a non rivolgersi al Ministro per le Regioni, che è il suo interlocutore istituzionale. Rivolgendosi al Ministro dell’economia, questa protesta si salda meglio con quella di Epifani e quella di Bersani, e così lo sbaglio di procedura acquista un effetto che probabilmente i governatori della Lega e del PDL non intendevano promuovere.
Dico che la tesi che Tremonti abbia sbagliato a non consultare preventivamente la Conferenza Stato-Regioni è molto dubbia, in quanto diversamente da quanto si legge nei comunicato di protesta formato da Errani e di quanto pare affermare Roberto Formigoni, la riduzione dei fondi dello Stato alle Regioni non è stata fatta in modo proporzionale su tutte le voci di spesa, creando un problema per i settori ove ciò non appare alle singole Regioni opportuno, ma in modo globale e generico. Il riparto fra le singole voci, nel testo del decreto, viene rinviato proprio alla Conferenza Stato-Regioni. Il decreto legge 31 maggio 2010 , n. 78 "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica", infatti, all’articolo 14 stabilisce al suo primo comma la riduzione dei trasferimenti alle regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano per 500 milioni di euro per l’anno 2011 e 1.000 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2012. E soggiunge nel secondo comma che, al netto dei trasferimenti dello stato per la spesa sanitaria regionale, “i trasferimenti statali a qualunque titolo spettanti alle regioni a statuto ordinario sono ridotti in misura pari a 4.000 milioni di euro per l’anno 2011 e 4.500 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2012 da ripartire proporzionalmente secondo criteri e modalità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze sentita la Conferenza Stato-Regioni”.
Tenendo conto del taglio alle Regioni a statuto speciale e province autonome di Trento e Bolzano, il decreto opera un taglio globale di 4,5 e poi di 5 miliardi alle Regioni (io uso la R maiuscola a differenza del decreto, in quanto si tratta delle Regioni come soggetti politici, non delle regioni in senso geografico) che viene ripartito proporzionalmente fra le stesse. E rinvia le modalità concrete della riduzione della spesa regionale nelle singole Regioni alla Conferenza Stato-Regioni (uso qui la S maiuscola per Stato in quanto ci si riferisce allo Stato italiano e non allo stato in senso generico, lo stesso fa il testo del decreto che, in questo caso, mette la maiuscola anche alle Regioni).
Dunque il Ministro dell’Economia si è puramente avvalso del suo potere-dovere di stabilire, ai fini dell’equilibrio globale della finanza pubblica, di cui è responsabile, il quantum di risorse spendibile per le Regioni. Ha rinviato alla Conferenza Stato-Regioni le modalità di attuazione di tale riduzione.
Le dichiarazioni di Errani sono demagogiche, nella miglior tradizione vetero comunista. Infatti egli per sostenere che il taglio alle Regioni è eccessivo si avvale di numeri gonfiati ad arte. Presentandosi a Bologna nella Assemblea legislativa regionale dell’Emilia Romagna, con il cappello di presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani ha dichiarato: “Deve essere chiaro che il comparto delle Regioni pesa per il 20% sulla spesa pubblica dello Stato, mentre nella manovra il taglio influisce per circa il 60%”. Ed ha poi aggiunto, togliendosi questo cappello e mettendosi quello di presidente della Regione Emilia Romagna, che il taglio peserà sull’Emilia-Romagna per "600 milioni di euro nel 2011 e altrettanti nel 2012".
Non è chiaro, come mai la cifra di riduzione per l’Emilia Romagna rimanga invariata, dato che il decreto fa riferimento a 4,5 miliardi di tagli globale per il 2011 e a 5 miliardi per il 2012 da ripartire fra tutte le Regioni in misura proporzionale ai fondi attualmente percepiti. E’ ancor meno chiaro da dove derivi quel 60%. Infatti, come ha fatto notare il Ministro Tremonti, i trasferimenti alle Regioni sono pari a 170 miliardi, di cui 106 per la sanità che non verranno toccati. E dunque il taglio di 4, 5 miliardi per il 2011 calcolato sui 64 miliardi di trasferimenti alle Regioni, al netto di quelli sanitari , è il 7% e non il 60% “calcolato” da Errani , che non si sa quale pallottoliere abbia usato. E sul totale della spesa delle Regioni, questo taglio di 4,5 miliardi è solo il 2,64%. Una percentuale molto modesta, considerando che nel passato le Regioni hanno avuto dallo stato una massa enorme di denaro che non ha subito riduzioni e hanno una enorme macchina burocratica.
Si può però argomentare che Errani si riferisce al taglio complessivo nazionale che è di 12 miliardi. E in effetti rispetto ad esso i 4,5 miliardi del 2011 sono una elevata percentuale. Si tratta del 37,5 per cento. Una parte sostanziale della manovra correttiva. Ma Errani, nel presentare la sua cifra gonfiata, non è così maldestro come si potrebbe pensare. Infatti, in realtà lui ha detratto dal totale della manovra che è di 24,5 miliardi, la quota riguardante il recupero di entrate tramite il rafforzamento delle misure contro l’evasione fiscale ed è giunto così alla cifra di 15,5 miliardi di altre misure, cioè essenzialmente di riduzioni di spese. Su di esse i 9,5 miliardi tolti alle Regioni sono il 61%. Il calcolo però è arbitrario. Infatti le Regioni fruiranno delle maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione. D’altra parte la manovra genera nuove entrate anche nelle tariffe autostradali e le Regioni gestiscono un certo numero di autostrade. Errani aggiunge che secondo le Regioni “non vi è un equilibrio e chiedono di aprire un confronto perché qui si tratta di tagli alle risorse per trasporti, manutenzione delle strade, fondo delle attività produttive, agricoltura, ambiente, edilizia residenziale, servizi”. Una dichiarazione impregnata di regionalismo dirigista.
I trasporti regionali, infatti, dovrebbero essere gestiti con criteri di economicità e per essi devono essere fatti pagare dei prezzi, non necessariamente tali da pareggiare il bilancio, ma nemmeno tali da dar luogo di fatto alla gratuità del viaggio. Quindi non è vero che questa riduzione di trasferimenti alle Regioni generi automaticamente un danno al servizio. Molte Regioni lo gestiscono con enti pubblici inefficienti, che potrebbero essere privatizzati o con concessioni a ditte private non soddisfacenti. Quanto ai fondi per le attività produttive, per l’agricoltura, per l’ambiente non è stabilito in alcun luogo che le Regioni debbano dare sovvenzioni all’economia e debbono addossarsi i costi della tutela dell’ambiente che possono essere attribuiti ai privati interessati. Insomma questi tagli sono assorbibili smagrendo il dirigismo regionale.
La tesi di Formigoni per cui questo decreto potrebbe essere viziato da incostituzionalità non appare valida. Essa si basa sulla ipotesi che i tagli vengano eseguiti sui vari trasferimenti alle Regioni, mediante tagli proporzionali a ciascuno di essi. Una tesi che gli deve essere stata suggerita dai suoi uffici legali, ma che non trova riscontro nel tenore letterale del decreto. Infatti esso si limita a fare riferimento a riduzioni proporzionali nei trasferimenti. E questo sembra volere significare che per ogni Regioni la riduzione sarà proporzionale. Ove si volesse ritenere che però questa dizione si riferisce ai singoli fondi, non al complesso dei fondi di ciascuna Regione, come sembrano pensare i legali di Formigoni, rimane il fatto che in altre parti di questo decreto e in generale nelle precedenti manovre di finanza pubblica, quando si sono adottati i criteri di riduzione proporzionale dei vari stanziamenti, si è anche adottata la clausola della flessibilità, per cui comunque l’Amministrazione coinvolta può spostare la riduzione da una voce che non appare comprimibile o che non le sembra opportuno comprimere ad altre voci, che a ciò si prestano. E considerando che questa clausola può essere inserita nelle regole attuative, individuate dalla Conferenza Stato Regioni a cui il decreto fa rinvio, non ci sono problemi di costituzionalità, ma solo di adattamento concreto delle riduzioni di spesa alle esigenze reali.
Certo se ci fosse un unico sistema di conti pubblici, disaggregato per unità operative di spesa, sulla base della classificazione contabile OSFOB adottata in sede europea, il Tesoro potrebbe gestire le riduzioni di spesa pubblica con criteri di project management, cioè di gestione manageriale informatizzata del budget, basata sul bilancio per obbiettivi, in cui i costi sono collegati ai risultati, per ogni centro di spesa, visto in rapporto agli altri della stessa specie, ai vari livelli di governo, dallo stato ai comuni. Ma a ciò si sono fino ad ora opposte le Regioni e gli enti locali. E se è vero che il governo italiano non ha fatto alcun passo avanti in questa direzione, è anche vero che il tema non pare sia all’ordine del giorno della riforma federalista.
Il documento ufficiale di protesta, date le considerazioni appena fatte, è in gran parte privo di logica. Inoltre esso è imbevuto di un pericoloso dirigismo regionalista, in collegamento a una errata concezione del federalismo fiscale. Esso infatti dice quanto segue: “Le Regioni ribadiscono la disponibilità a concorrere al risanamento dei conti pubblici come finora sempre accaduto evidenziando che tale responsabilità deve essere collocata in un equilibrio dello sforzo fra i singoli comparti della Pubblica Amministrazione. ….. Sostanzialmente si riducono i margini della riforma del federalismo fiscale sia nel percorso istituzionale previsto sia nei fatti con tagli lineari senza nessun concetto di premialità per i comportamenti virtuosi e questo è un problema gravissimo perché la Conferenza delle Regioni ritiene che occorre dare piena attuazione al Federalismo fiscale come previsto dalla legge 42 del 2009, in tutte le sue parti. Nel merito la manovra preclude l’esercizio di molte delle funzioni di competenza regionale di assoluta sensibilità sociale ed economica, nonché qualsiasi azione anticiclica e di sviluppo del proprio territorio, inibendo tutte le politiche d’investimento".
Non è vero che questa manovra precluda l’esercizio di funzioni di assoluta sensibilità sociale ed economica. Semplicemente riduce i trasferimenti statali alle Regioni, prospettando loro la necessità che incrementino l’efficienza dei servizi pubblici regionali e riducano gli interventi di sovvenzione all’economia. Inoltre non sembra appropriato che le Regioni svolgano sul loro territorio una azione anticiclica con le loro spese correnti. La possono svolgere nel campo degli investimenti, ma non in una ottica neo keynesiana, per cui l’investimento serve essenzialmente per generare domanda globale, bensì in una ottica di economicità. E in tale caso, l’investimento va valutato sul lato dell’offerta. E da ciò consegue che, per quelli validi, le Regioni possono operare, in gran parte, con finanziamenti di mercato, facendo appello alla finanza di progetto e al PPP, ossia al partenariato pubblico-privato.
Ma non regge neppure la tesi di Luca Zaia secondo cui occorrerebbe applicare le economie di spesa sulla base dei costi standard. Infatti il decreto stabilisce che per ogni Regione la riduzione di spesa sia proporzionale. E si potrebbe derogare a questo criterio, seguendo quello delle “Regioni più virtuose”, avanzato semplicisticamente dalla Conferenza Stato Regioni solo se si potessero individuare non solo i costi, ma anche i risultati. Infatti se i costi sono tenuti nei limiti degli standard, ma i risultati sono pessimi, la Regione non è certo virtuosa. E anche se i risultati sono buoni e i costi sono standard, la Regione non è da considerarsi necessariamente virtuosa perché gli obbiettivi perseguiti potrebbero superflui o contro indicati per l’operatore pubblico in una concezione corretta dei compiti del governo, centrale o locale coerente con l’economia di mercato.
La Conferenza Stato-Regioni si riempie la bocca di federalismo solidale. Ma al federalismo liberale, intendendosi come tale quello di un governo che, a tutti i livelli, agisce in modo conforme ai principi di libertà della persona e dell’impresa, con regole di bilancio e di gestione a ciò conseguenti, non si vede alcun riferimento.