Sulla rivolta in Siria Obama dimostra vergognosa timidezza

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Sulla rivolta in Siria Obama dimostra vergognosa timidezza

07 Gennaio 2012

A quasi un anno dall’inizio dell’agonia della Siria, la Lega Araba la scorsa settimana ha inviato un piccolo gruppo d’ispettori capitanati da un agente dei servizi di sicurezza sudanesi, un uomo con un passato brutale nei campi della morte del Darfur.

Il Gen. Mohammed al-Dabi, fedele aiuto del noto dittatore sudanese, Omar al-Bashir, nel descrivere la battaglia in corso nella città siriana di Homs non ci ha visto nulla di “preoccupante” e tanto meno egli ha considerato tale la presenza di cecchini sui tetti dele case nella città meridionale siriana di Deera.

Una bandiera ad Homs, tenuta da un gruppo di manifestanti donne, ha colto fino in fondo la natura del problema: “Tutte le porte sono chiuse, eccetto le vostre, Oh Dio!”. Proprio così, la solitudine dei siriani, la loro nobile aperta resistenza alla più radicata dittatura del mondo arabo, è andata in scena sullo sfondo di una sterile diplomazia internazionale.

La Libia ci ha tutti condotti all’errore. Il salvataggio è iniziato quando le ordalie libiche erano già iniziate da settimane. Così non è stato per i siriani. Non vi aspettate che Bashar al-Assad prevenga i sudditi del proprio regno – vera e propria Nord Corea sul Mediterraneo – che le sue forze stanno per abbatterli e massacrarli come dei ratti, esattamente come fece Muammar Gheddafi.

E’ ghiaccio quello che corre nelle vene del dittatore. La sua gente viene uccisa, a migliaia sono rapiti e mandati a morte, addirittura torturati negli ospedali se essi cercano cure. Bambini vengono brutalizzati per aver osato dipingere dei graffiti sui muri. E ciononostante, l’uomo ha avuto il coraggio di mettersi a sedere lo scorso mese in un’intervista con la celeberrima giornalista Barbara Walters e dire che quegli forze di assassini senza guinzaglio non sono le sue.

Commettendo un errore rivelatore, il dittatore siriano ha detto alla Walters che il paese non gli appartiene, che egli è solo il suo presidente. La verità è che il casato degli Assad e i ‘baroni’ dell’intelligence al suo fianco sono i padroni di un paese tormentato. Hafez al-Assad, il padre di Bashar, era un genio del male.

Crebbe da una condizione di estrema povertà e indigenza e attraverso i vari gradi dell’esercito siriano acquisì il potere assoluto. Smantellò un paese tumultuoso, riducendolo alla sottomissione, fino alla sua morte naturale nel 2000, e consegnò al figlio un regno in tutto e per tutto salvo per il nome.

Trent’anni fa, Assad padre schiacciò nel sangue una feroce ribellione della Fratellanza Musulmana, devastò la città di Hama, sulle pianure centrali della Siria, e prese a comandare una società spaventata che accettò l’offerta fattagli – servitù politica in cambio di noiosa e crudele stabilità. Adesso il figlio non fa altro che ripercorrere l’arco percorso dal padre: annientare la ribellione a Homs, ricreare il regno della paura, fintantoché il mondo non lo perdonerà e tornerà a Damasco.

Una legenda ha preso quota e riguarda l’importanza strategica della Siria – al confine con il Libano, Israele, la Giordania, la Turchia e l’Iraq – e il regime degli Assad se ne più che avvantaggiato. Lo scorso mese, il dittatore siriano, in un mix d’ingegno e spregiudicatezza, giocò questo ritornello: “La Siria è oggi il fulcro di questa regione. E’ la faglia e si gioca con il terreno si finirà per causare un terremoto. Volete vedere uno o decine di altri Afghanistan? Qualsiasi problema in Siria brucerà l’intera regione”. 

Non c’è modo di negare l’efficacia di questo argomento. Diremo solo che le due più grandi autocrazie del mondo – la Russia e la Cina – hanno offerto al regime copertura e sostegno alle Nazioni Unite. Una risoluzione senza mordente portata al Consiglio di Sicurezza lo scorso Ottobre fu rigettata, con i saluti di questi due Stati autoritari, con tanto di acquiescenza di Brasile, India e Sud Africa. (E’ già finito la legittimità morale delle potenze “emergenti”). 

Per parte sua, il mondo arabo ha trattato il dispotismo siriano piuttosto cautamente. Per mesi, la Lega Araba ha nascosto il capo e distolto lo sguardo dalle barbarie siriane. Vergognatisi di fronte allo spettacolo degli shabiha (i guardiani del regime) in preda alla violazione delle moschee, che menavano e uccidevano i fedeli, la Lega Araba ha dovuto alla fine sospendere la Siria come membro dell’organizzazione.

Il “piano di pace” della Lega Araba è stato firmato lo scorso 19 Dicembre, e ciononostante il massacro continua. La dittatura di Damasco ha concesso alla Lega Araba di introdurre nel paese un gruppo di suoi ispettori nel paese.

Coraggiosamente i siriani sono venuti allo scoperto in gran numero la scorsa settimana per salutarli e per manifestare quanto in profondità essi si oppongano al regime. Circa 250,000 persone, secondo quanto riportato, hanno accolto gli ispettori nella città settentrionale di Idlib; 70,000 hanno sfidato il regime a Doume, nei pressi di Damasco. E ancora, gli assassini sono proseguiti.

Le democrazie occidentali speravano che ciò fosse il preludio per la liberazione. Si parla a Parigi di “corridoi umanitari” per dare fornitura alle città siriane nella battaglia con cibo, acqua e carburante. Vi è stata una silenziata discussione sull’imposizione di una no-fly zone che rafforzi e protegga i defezionanti che compongono la Free Syrian Army. 

Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan è stato di un cinismo impressionante sin dall’inizio. Precedentemente alleato del padrone degli Assad, alla fine ha litigato con il dittatore siriano lo scorso Autunno, affermando che: “Si può rimanere al potere con i carri armati e i cannoni solo fino a un certo punto”. Ma l’aiuto di Ankara difetta sempre di un giorno di ritardo. Gli esiliati siriani e i defezionanti hanno bisogno della Turchia, e del santuario che essa costituisce, ma hanno iniziato a perdere la speranza quanto alle false promesse fatte dal sig. Erdogan.

La risposta statunitense è stata altrettanto vergognosa. Sin dall’inizio della ribellione siriana, l’amministrazione Obama ha mostrato una incredibile timidezza. Dopo tutto, la dittatura di Assad era un regime con il quale il presidente Obama voleva “impegnarsi” (la teocrazia di Teheran era l’altro). La risposta statunitense alla battaglia per la Siria è stata glaciale.

A riprova di ciò, possiamo fregiarci di un notevole e coraggioso inviato a Damasco, l’ambasciatore Robert Ford. Ha affrontato i bulli del regime, si è fatto strada ai funerali ed è restato nelle città. Nelle vie del sangue, ha trovato un fede nel potere americano e nella sua benevolenza che non dovrebbero sorprendere.

Ma ai più alti livelli dell’amministrazione – il Presidente, il Segretario di Stato – la strategia nei confronti della Siria rimane animata da una cautela paralizzante. In fondo in fondo, l’amministrazione Obama sembra apporre la sua firma alla credenza che la tirannia di Assad sia preferibile all’alternativa messa in campo dall’opposizione. Senza fede nella possibilità offerte dalla libertà e dal potere, la diplomazia USA si è comportata seguendo l’assunto non detto che il regime probabilmente sopravviverà alla tempesta.

La tenacia della ribellione soprese Washington, e un po’ di deferenza dovrebbe essere riconosciuta a ciò. Lo scorso mese, Frederic Hof, l’uomo di punta sulla Siria al Dipartimento di Stato Usa, ha descritto il regime di Damasco come “dead man walking”, un morto che cammina. C’è stata certo un’analisi politica in quella dichiarazione, ma anche il desiderio che il conflitto siriano finisca bene senza che Washington debba assumere alcuna dura decisione.

Allo stesso modo, tanto i siriani del regime che i manifestanti devono essere in grado di annusare il vento: un presidente americano che ceda terreno strategico nel Grande Medio Oriente non è davvero una minaccia per il regime di Damasco.

Con un sguardo alle mire di rielezione, il presidente Obama si riemprirà la bocca del fatto che ha messo fine alla guerra in Iraq, come aveva promesso che avrebbe fatto. La ricerca di quel genere di applauso preclude però l’assunzione del peso siriano. In Obamaland, la politica estera è piena di scelte alternativa: soldati sul terreno oppure completa abdicazione.

La Libia ha mostrato il difetto di una tale impostazione, e ciononostante ciò rimane la visione del mondo dell’attuale servitore del potere americano. Hafez al-Assaf cedette il potere a suo figlio Bashar. Adesso Bashar, per riconoscenza, ha un figlio di nome Hafez. Da questo legame, i siriani sono determinati a svincolarsi. Per il momento sono da soli a farlo.

Fouad Ajami è senior yellow alla Hoover Institution dell’Università di Stanford e co-presidente del gruppo di lavoro della Hoover  “Islamism and International Order”.  

Tratto dal Wall Street Journal

Traduzione di E. F.