Sulla scuola Fioroni dice cose  di “destra”, non va contraddetto  con cose di “sinistra”

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Sulla scuola Fioroni dice cose di “destra”, non va contraddetto con cose di “sinistra”

06 Settembre 2007

Vorrei partire da
un’affermazione fatta da Gaetano Quagliariello durante la Summer School di
Magna Carta, che indica in modo tanto sintetico quanto chiaro il compito
presente che sta di fronte all’opposizione: «contribuire alla formazione di una
nuova classe dirigente e sconfiggere le egemonie culturali consolidate».

Lo spettacolo desolante
dell’attuale governo rischia di indurre l’opposizione a dare per scontato il
vantaggio che essa è ha acquisito. Ma questo vantaggio può essere dissipato se
esso verrà alimentato soltanto dagli errori di chi governa e non anche da un
lavoro paziente e metodico di costruzione di una classe dirigente e di
elaborazione di una cultura capace di dare risposte concrete e di sostituirsi a
un’egemonia che vive soltanto di pura e semplice occupazione del potere. Il
processo di creazione del Partito Democratico mostra che una parte consistente
dell’attuale maggioranza si sta rendendo conto della necessità di dare risposte
alla deriva in cui è precipitato il paese e di non lasciarsi soffocare
dall’abbraccio mortale dell’estremismo di sinistra. D’altra parte,
l’esasperazione del paese è giunta a un punto tale che quel che si attende è
che si faccia qualcosa, anche indipendentemente da chi lo farà. Una parte
consistente del nascente Partito Democratico sta muovendosi nel senso di
tentare di appropriarsi di temi caratteristici dell’opposizione, quali quelli
dell’ordine pubblico, della rivalutazione del merito, del rigore. Se questo
tentativo riuscirà dipenderà dalla capacità di condurlo avanti senza lasciarsi
condizionare dall’estremismo di sinistra. I fatti diranno se esso resterà al
livello di enunciazioni o di semplice retorica propagandistica. Ma sarebbe un
errore capitale credere che la risposta a questo tentativo possa essere quella
di rispondere comunque “no” a qualsiasi cosa venga proposta, di collocarsi “a
prescindere” in una posizione opposta, anche di fronte a proposte ragionevoli,
al punto di assumere posizioni di sinistra pur di non dover essere d’accordo su
qualcosa con il governo. Un’opposizione vitale e davvero efficace deve saper
dire di sì quando ciò è giusto, e mirare soprattutto a proporre
sistematicamente un punto di vista complessivo in cui le singole misure trovino
una coerenza e non siano soltanto – come è probabile che accadrà per i
tentativi del governo – escogitazioni episodiche non inquadrate in un disegno
organico. Per essere capaci di fare questo occorre disporre di un programma
succinto ma chiaro, di una classe politica di livello, di un rapporto profondo
%0Acon ampi settori del mondo culturale e di strutturarsi come forza politica
radicata nella società civile.

Il comportamento che sta
assumendo l’opposizione sulla questione della scuola va malauguratamente in
direzione opposta. Le scelte compiute dal ministro Fioroni in questi giorni –
sul tema della disciplina scolastica, dei crediti e debiti formativi e
soprattutto del ripristino di un approccio disciplinare all’insegnamento –
forse non riusciranno ad andare oltre il livello episodico, ma è un gravissimo errore
contrastarle per principio, fino al punto di schierarsi su posizioni
caratteristiche della sinistra sindacal-corporativa e della cultura del
pedagogismo post-sessantottino. La sfida che occorre proporre è di vedere se il
ministro riuscirà a avanzare un progetto complessivo di riqualificazione della
scuola, di fronte a un disastro che nessuna persona seria può negare. Ma è
assurdo e autodistruttivo rifiutare le proposte da lui avanzate con argomenti
il cui carattere pregiudiziale è dimostrato dal ricorso a una terminologia
(“restaurazione”, approccio “impositivo”, “retrivo”, ecc.) caratteristica
dell’ideologia del democraticismo egualitarista di sinistra. Quel che così
viene mostrata è l’assenza di una visione della scuola originale e non
subordinata ai consunti paradigmi che dominano da alcuni decenni e che ci hanno
condotto nella condizione presente.

Non nascondiamoci dietro un
dito. I disastri del sistema dell’istruzione sono, in primo luogo,
responsabilità della sinistra politica e sindacale e dei sistemi culturali
egemonici ad essa organici. Ma come non vedere che se, dopo cinque anni di
governo ininterrotto da parte del centro-destra, la situazione non è affatto
migliorata e ci troviamo oggi a fronteggiare una situazione catastrofica –
sulla cui fenomenologia non è necessario insistere – vuol dire la medicina non
è servita e non era appropriata? Compito di una forza politica responsabile non
è quello di far retorica e propaganda ma di riesaminare seriamente e
criticamente i propri atti e di correggere quel che non ha funzionato. Né vale
riproporsi come tali, senza dire quel che si intende fare pretendendo fedeltà
di bandiera o rimasticando ricette fallimentari: le cambiali in bianco, in una
situazione come questa, non le firma più nessuno.

Se un errore è stato compiuto
dal centro-destra, nella sua gestione quinquennale della scuola e
dell’università, è stato proprio quello di non aver saputo rompere con la
passata gestione e di non aver mostrato la capacità culturale di individuare i
nodi su cui differenziarsi dalle politiche della sinistra e del sindacato. Il
discorso sarebbe lungo e complesso. Mi limiterò a fermarmi su un punto
soltanto. Una delle caratteristiche della politica scolastica della sinistra è
stata – in coerenza con un’ideologia tipicamente comunista – di affermare una
visione dirigista della scuola. Questa visione dirigista (e statalista) ha
individuato come strumento fondamentale la determinazione dei contenuti
dell’insegnamento da parte di una casta culturale che si è sovrapposta ai terreni
disciplinari: i pedagogisti, meglio detti “pedagogisti democratici”.
L’affermazione della tesi secondo cui i contenuti dell’insegnamento vengono
determinati nel campo di una “metadisciplina” (o “iperdisciplina”, come
qualcuno l’ha ridicolmente definita) è servito a espropriare i docenti della
loro funzione di insegnanti, riducendoli a meri burocrati, canali di
trasmissione dei programmi e delle metodologie determinate da commissioni
ministeriali di “esperti pedagoghi e didattici” di sapore quasi sovietico. A
questo si è accompagnata una visione della “valutazione” come una scienza
“oggettiva” riservata anch’essa a una casta di esperti, per cui – anche su
questo piano – la funzione del docente è stata espropriata e svilita e la si è
ridotta a quella di passacarte delle determinazioni altrui. E ciò è avvenuto
nella grottesca pretesa che quelle caste possedessero il privilegio di non
essere controllate o messe in discussione da nessuno.

Doveva essere fin troppo
evidente che una simile visione dirigista non ha nulla a che fare con una
visione liberale ed è profondamente
contraria a una concezione della scuola come un luogo basato sul rapporto tra
insegnante e allievo in quanto persone.
È assolutamente stupefacente che formazioni politiche di stampo liberale e
persino una parte del mondo cattolico (che pure dovrebbe avere una speciale
sensibilità per la centralità della persona nei rapporti sociali) non abbia
compreso che il compito primario era di rompere radicalmente con questa visione
e questa tradizione e di spezzare l’egemonia culturale che la sosteneva.

Al contrario, il drammatico
errore del centro-destra è stato di affidarsi agli stessi consiglieri che
avevano dominato nei precedenti governi di centro-sinistra – ovvero alla casta
dei “pedagogisti democratici” – creando così di fatto un rapporto di continuità
assoluto con le politiche precedenti. I tentativi di innovazione – alcuni
positivi, altri discutibili – si sono infranti attorno al nucleo duro
rappresentato da questa continuità. Peggio ancora, ci si è sottomessi
passivamente a discorsi culturali che ad altri livelli (come nel discorso sulla
famiglia) vengono contestati radicalmente e giustamente: tale è il caso della
trista tematica zapateriana della “matematica del cittadino”. Nulla meglio di
questo esempio testimonia della subalternità e della fragilità culturale che ha
ispirato le politiche dell’istruzione del centro-destra. Ed è ancor più penoso
e preoccupante che, per aver osato sottolineare la deplorevole presenza di
queste tematiche – insisto: caratteristiche di visioni postsessantottine e laiciste
– chi scrive abbia subito una dura reprimenda, con la riaffermazione della
validità di certi documenti prodotti durante il governo di centro destra che
sembrano usciti dalla penna dei consiglieri dell’ex-ministro Berlinguer (e
probabilmente sono usciti proprio da quelle penne…). Oggi l’ex-ministro tenta
di difendere la coerenza delle sue riforme con le indicazioni di Fioroni
sostenendo ridicole tesi come quella secondo cui la musica s’impara prima suonando
e poi apprendendo il solfeggio e la scienza prima si sperimenta e poi si impara
teoricamente. Tesi ridicole – basate sulle sue note competenze di musicista e
scienziato, forse da violinista e fisico al pari di Einstein – cui
probabilmente neppure lui crede. Ma la facile polemica contro queste
sgangheratezze culturali non può esimere dal guardare in casa propria,
dall’assumere comportamenti culturali coerenti con le proprie visioni della
società e dal correggere gli errori del passato.

Un centro-destra che voglia
tornare al governo e riformare il paese non può pretendere l’adesione a scatola
chiusa a politiche dell’istruzione che non rompano una volta per tutto con il
dirigismo culturale e finiscano col riproporre l’egemonia del “pedagogismo
democratico”. Occorre capire che questa è la questione fondamentale su cui si
misura il carattere autenticamente liberale delle politiche che si vogliono
proporre. La pietra di paragone di una politica liberale è l’affermazione di
una visione della scuola basata sul rapporto tra insegnante e studente e su un
insegnamento disciplinare. E l’affermazione di una simile – insisto, liberale e personalistica – passa per la rottura con le caste dei pedagogisti
“progressisti”, dei burocrati ministeriali e sindacali e dei docimologi di
professione.