Sull’ambiente Bush ha rotto con Kyoto ma non con il populismo verde
07 Ottobre 2008
Bocciato in ambiente, promosso sul clima. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, difficilmente sarà considerato un esempio da seguire per le sue politiche ambientali. Il responso non viene solo dal fronte ecologista, che vede in lui (erroneamente) il nemico pubblico numero uno, ma dalla galassia free market americana, che accusa l’inquilino della Casa Bianca di non aver invertito e neppure rallentato le tendenze all’interventismo verde. Non che Bush abbia introdotto regole particolarmente negative; e, tranne qualche inasprimento degli standard sulla qualità dell’aria (che gli analisti ritengono ingiustificati), ha sostanzialmente lasciato le cose come stavano. Ma non è un’attenuante.
Quando venne eletto nel 2001, Bush si impegnò a rappresentare la “leave us alone coalition” – la coalizione lasciatecistare – che, in campo ambientale, chiede una semplificazione delle regole, in modo da semplificare i processi di diffusione delle nuove tecnologie, gli investimenti e l’innovazione. Il presidente ha preferito seguire una strada diversa: prestare poca attenzione ai sentieri regolatori, confidando che le cose si sarebbero messe a posto da sole. Così non è stato, producendo un esito paradossale: l’evoluzione del contesto regolatorio è proseguita indisturbata lungo le direttrici ereditate dall’era Clinton, ma nel contempo Bush non ha trovato un punto di contatto politico con i movimenti ambientalisti. Una doppia sconfitta, resa più cocente da alcune scelte oggettivamente molto criticabili compiute dall’amministrazione. Una riguarda l’accelerazione impressa sui biocarburanti, come risposta di sistema al rampante populismo energetico. Nel sostegno all’etanolo si nascondono, infatti, diversi filoni: uno, ovvio, è quello dell’assistenzialismo agricolo. Altri sono più sottili e ideologici, e vanno dal sentimento anti-arabo (incattivito dalla crescita dei prezzi del petrolio) all’eterna chimera dell’indipendenza energetica, dalle pressioni (ancora una volta) ambientali fino alle aspirazioni geopolitiche a sganciarsi dal Medio Oriente (da cui, in verità, la dipendenza americana non è poi così pronunciata). Analogamente contestati, e più o meno per le medesime ragioni, i sussidi (o crediti d’imposta) concessi alle fonti rinnovabili, in particolare l’eolico, di cui molti hanno denunciato l’effetto distorsivo sul mercato elettrico.
L’altro gesto eclatante, firmato dal segretario all’Interno, Dick Kempthorne, riguarda l’inserimento degli orsi polari nella lista delle specie in via di estinzione. L’effetto pratico della decisione è colossale, poiché in questo modo i plantigradi (e le aree da essi popolate) ricadrebbero sotto le ferree regole dell’Endangered Species Act, con ricadute enormi sulla possibilità di svolgere attività di esplorazione e produzione di idrocarburi. Non solo, secondo i critici, non c’è ragione di considerare gli orsi bianchi a rischio, ma la manovra ha destato l’immediata e forte reazione del governatore dell’Alaska, e oggi candidata vicepresidente del repubblicano John McCain, Sarah Palin, che ha immediatamente presentato ricorso.
Dove, invece, il giudizio sull’operato di Bush cambia è sulle politiche del clima. Non tanto per quello che il presidente ha fatto – sebbene il lancio dell’Asia Pacific Partnership sia stato un colpo di genio – quanto per quello che ha saputo disfare. Il naufragio (pur non formale) del protocollo di Kyoto lo si deve, sul piano politico, proprio all’opposizione americana. Va pure detto che il Senato (a cui spetta il compito di ratificare i trattati internazionali) ha sempre mantenuto un orientamento chiaramente anti-Kyoto, sia quando la maggioranza era repubblicana, sia ora che è democratica. Ma l’esplicita avversione della Casa Bianca a un meccanismo basato su obblighi vincolanti di riduzione delle emissioni, orientati al breve termine e controllati a livello internazionale, ha chiuso molte prospettive. Basta questo a dire che gli Stati Uniti, durante l’era W., hanno condotto una politica ambientale liberista? Certamente no. Però è sufficiente ad affermare che, negli ultimi otto anni, essi hanno condizionato il dibattito internazionale in modo senz’altro positivo, costringendo pure i “kyotisti” a rivedere molte delle loro posizioni, sia tattiche sia strategiche. La grande incognita è in che modo il futuro presidente raccoglierà, su questo fronte, l’eredità di Bush, e solo in parte ciò dipende da chi uscirà vincitore dalle prossime elezioni. L’effetto fondamentale del bushismo, sotto tale profilo, è stato infatti quello di mandare avanti l’Ue, e rendere evidente a tutti il fallimento delle politiche europee. Se poi la storia sarà maestra di vita, lo dirà la cronaca.