Sull’idea di rivoluzione

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Sull’idea di rivoluzione

28 Ottobre 2007

In un breve e denso saggio pubblicato sulla rivista Internazionale (12/18 ottobre 2007-n.
714, pp. 50-54), che reca un titolo almeno apparentemente molto low profile, Nascita di un partito, lo
storico inglese Eric Hobsbawm sostiene che “la più grande invenzione politica
del Novecento (sia) stata il “partito d’avanguardia” di Lenin, formato da
quadri marxisti disciplinati e idealmente a tempo pieno, veri e propri
“rivoluzionari di professione””.

Nonostante la fragile base sociale e spesso
anche numerica, siffatti partiti hanno saputo veicolare un’idea rivoluzionaria
della politica che anche oggi si inscrive nella dimensione del senso comune. In
realtà, Hobsbawm, facendo riferimento al case-study del Partito comunista
britannico, smonta infine la costituzione quasi mitologica di questa
organizzazione, anzi ne coglie il successo limitato anche nel tempo, tutto
sommato, ma ciò che mi interessa riprendere è la tesi iniziale dello storico,
traducendola in una domanda: perché l’idea di rivoluzione è diventata parte
essenziale della semantica moderna e stenta ad essere messa tra i ferrivecchi,
almeno in maniera definitiva, anche nel postmoderno? Si tratta di un processo
che va ad incrociare le coordinate fondamentali della modernità, a partire
dalla rivoluzione copernicana e da quel gigantesco processo di trapasso
dall’universo chiuso all’universo aperto. Inoltre, la filosofia critica di Kant
ricolloca l’idea di rivoluzione al di fuori della semantica originaria, che
invero non indicava un processo di dissoluzione-trasformazione, bensì, al
contrario, un movimento di ri-collocazione verso il centro e il luogo di
equilibrio dell’universo, sia astronomico sia politico-sociale.

Walter
Benjamin, studiando la figura del sovrano barocco, sottolinea genialmente la
figura di quest’idea di rivoluzione come ri-collocazione del potere verso il
punto originario, costituito dal Sovrano e dalla sua corte, e rilegge
l’esperienza del Politico nel Moderno come costante rideclinazione di un Centro
perduto ma di cui si prova struggente nostalgia (in qualche modo, anche Hobbes
può essere riletto in questa chiave). Se vogliamo, alcune indicazioni
schmittiane vanno in questa direzione e corroborano l’idea di un movimento
complessivo di ricollocazione “teologica” verso il Sovrano e, in ogni caso, la Sovranità come esercizio
sistematico di potere e decisione sullo stato di eccezione. Ecco, questo
complesso quadro storico-semantico, di cui ha approfondito tratti e misura
teoretica Reinhart Koselleck nei suoi studi di semantica storica, complicano il
quadro destinato a privilegiare l’idea semplice ed immediata di “rivoluzione”
come trasformazione radicale e perfino violenta della realtà. Eppure,
nonostante ciò, è questa l’idea che noi tutti, prima facie, abbiamo della
rivoluzione. E, in questa prospettiva, si colloca l’intuizione storiografica di
Hobsbawm, dalla quale ho preso spunto. I “rivoluzionari di professione”, sui
quali si è affaticato proficuamente Pellicani per decenni, sono di fatto
l’esito antropologico della permanenza non soltanto storica ma anche
escatologica e religiosa dell’idea di rivoluzione. Questa connessione storica e
teorica sembra corroborare la tesi, a mio avviso ancora insuperata, di Schmitt,
secondo la quale i concetti politici sono in realtà concetti teologici
secolarizzati. E la rivoluzione è l’idea del Regno ultimo, escatologico secondo
la linea profetica originaria, priva di fondamento ultraterreno. Così,
parimenti, il leninismo e il comunismo nel suo complesso, non è altro che una
religione senza Dio, come affermarono due pensatori assai distanti fra di loro,
Del Noce, cattolico tradizionale, e Rothbard, agnostico libertario americano di
origini ebraiche.

La nostalgia di Dio e della Sua presenza attiva nella storia
hanno generato qualcosa che si accosta appunto ad una nostalgia dell’Assoluto,
un radicamento ultimativo nella storia del germe del Divino che non potrà mai
essere estirpato dal cuore dell’uomo. Si tratta del senso religioso o di
un’approssimazione al compimento dell’ “uomo nuovo”, che, di fatto, manifesta tratti
gnosticheggianti che distorcono la visione escatologica cristiana. Tutto questo
armamentario concettuale e teologico, ancorché deviato e strattonato fino a
giungere ad esiti grottescamente spiritualistici, è ancora vivo in mezzo a noi
e congiunge l’idea della rivoluzione leninista alla permanenza dell’idea di
rivoluzione in quanto tale: una credenza granitica, che conduce ad associare
spontaneamente fattori apparentemente stranei l’uno all’altro. Nelle credenze,
si nasce poi si vive; dopodiché, è compito del libero arbitrio e della ragion
critica mettere in discussione le credenze nelle quali si nasce e dalle quali
si fatica a venir fuori. Il partito d’avanguardia di Lenin è stato così
certamente una geniale invenzione, anzi direi un concetto creato per risolvere
un problema: la presa del potere da parte dei bolscevichi. Questo punto così
oggettivo e insieme così mentale, irrigidito nella nostra mente, ha per così
dire vinto, nel Novecento, ed ha vinto sulle teste di sinistra, certo, ma anche
di destra. E’ un caso di “mindfucking” (lavaggio del cervello, tradotto in
termini non letterali) ideologico-culturale, diciamo così indiretto, che genera
ancora mostri. Mostri non tanto della ragione, quanto dell’associazione
mentale, dunque delle credenze o convinzioni. Quelle “rèmore”, i piccoli pesci
che si attaccano alle nostre navi e impediscono agli equipaggi di salpare e prendere
il largo. Cambiare il linguaggio significa cambiare la testa e le strategie di
approccio e di cambiamento della realtà. Perché il pensiero è l’antenato
dell’azione.