Sull’immigrazione la Chiesa non separi la tolleranza dal rispetto

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Sull’immigrazione la Chiesa non separi la tolleranza dal rispetto

18 Maggio 2009

Nella Chiesa è presente una tentazione: legare il tema della difesa della vita a quello della tolleranza nei confronti degli immigrati. Questa congiunzione, tra l’altro, la porterebbe a riguadagnare una simmetria rispetto ai due principali schieramenti politici, collocandosi più vicina al centrodestra sui temi della biopolitica, più vicina al centrosinistra su immigrazione e sicurezza. E, cosa dal suo punto di vista ancor più significativa, in un caso come nell’altro si verrebbe a trovare dalla parte dei più deboli conquistando così una coerenza a tutto tondo.

C’è già chi inizia a coltivare questo paradigma e, per questo, a preconizzare la fine della "luna di miele" tra Chiesa e governo. Le autorità ecclesiastiche, dal canto loro, devono poter esprimere le proprie posizioni senza preoccuparsi che esse favoriscano di volta in volta l’una o l’altra parte politica. La politica, invece, non può non tener conto della lettura che di tale dialettica viene data dall’esterno. Dunque, per evitare che si radichino schemi un po’ superficiali, il centrodestra deve avere la forza d’aprire con la Chiesa un confronto franco e serio, superando da una parte e dall’altra la tentazione della sufficienza e le posizioni scontate.

Nel tentativo d’intendersi, bisogna partire dal significato delle parole superando le sterili polemiche di questi giorni. Parlare di società multi-etnica o di società multi-culturale, infatti, può voler dire cose assolutamente diverse.

Un’accezione “debole” di queste espressioni fa riferimento al fatto che la società occidentale è per definizione multi-culturale: attraversata cioè da culture differenti che s’incontrano, si scontrano e alla fine si ibridano. In questa prospettiva è certamente lecito ritenere la propria cultura portatrice di principi più buoni e fare di tutto per difenderli. Ma non si può pretendere che essa resti incontaminata.

Quest’accezione della formula, che sottoscriverei senza esitazioni, non è però soltanto “debole”. E’ anche scontata. Se la si accredita senza batter ciglio si rischia di scordare che il multiculturalismo, in realtà, è una precisa teoria che non si accontenta di descrivere una dinamica sociale. Pretende anche che ogni cultura abbia una legittimazione autonoma, risponda per questo a una propria razionalità interna, sia dotata di un proprio codice di comportamento, di un proprio diritto e di proprie sanzioni. E, dunque, possa prosperare giustapponendosi alle altre culture, riducendo al minimo il confronto e la contaminazione.

E’ evidente come tale teoria applichi all’integrazione i canoni del relativismo: se non posso stabilire a priori che alcuni principi siano migliori di altri, come faccio ad imporre un sistema di regole che valga per tutti? Ed è altrettanto evidente che, lungo questa deriva, la forza dello Stato sia destinata ad abdicare lasciando spazio all’organizzazione interna di ogni etnia presente sul territorio nazionale, anche a scapito dei diritti degli individui che vi appartengono.

I rischi di tutto ciò sono sotto i nostri occhi. E la Chiesa farebbe bene a non girare la testa dall’altra parte. Basta guardare all’Olanda, dove accanto ai negozi di sesso o ai bar nei quali si vendono droghe leggere è sempre più facile scorgere donne col burka o chiese che ogni giorno si trasformano in moschee. Il tessuto sociale inevitabilmente si allenta e, cosa ancor più preoccupante, per contrastare tutto questo non bastano più neppure le vecchie ricette assimilazionistiche. Le rivolte nelle banlieu francesi ce lo hanno insegnato.

C’incamminiamo dunque per una strada difficile, lungo la quale l’unico parametro certo che non può essere offuscato è la legalità. Solo in nome di questa è  possibile affermare sul nostro territorio alcuni principi non negoziabili validi erga omnes, indipendentemente dall’appartenenza culturale. Non possiamo infatti tollerare alcuna forma di violenza sui più deboli nè mettere in discussione la parità tra uomo e donna. Ed è del tutto superfluo sapere se tali precetti siano ricavati dai comandamenti o dalla tradizione giuridica che da essi, in fondo, deriva.

Il fatto è che nessuno può pensare di offrire ospitalità senza limiti se vuole provare a sviluppare una politica dell’integrazione all’insegna dei principi di legalità e statualità, e se vuole evitare che si compiano spontaneamente le dinamiche del multiculturalismo. In un momento come questo è bene dunque che la carità cristiana si ponga al riparo da una involontaria eterogenesi dei fini, che possa produrre situazioni contrarie a quelle che ci si prefigge. Per questo è necessario che la Chiesa tenga conto di un principio di legalità in grado d’individuare anche “i nuovi deboli”, cioè coloro che vivono in situazioni d’insicurezza, stranieri nei loro quartieri e spaventati persino di uscire di casa. Alle loro ragioni infatti occorre guardare assieme a quelle di tanti fratelli disperati alla ricerca di una vita migliore e di una nuova speranza.

Se la Chiesa accetterà di considerare quest’orizzonte, sulle soluzioni legislative sarà possibile di volta in volta discutere e lecito dissentire senza drammi. In caso contrario, potrebbe aprirsi uno iato tra rispetto e tolleranza. Noi ci collochiamo dalla parte del primo: rispetto dell’uomo nel rispetto della legge. Non vorremmo che per un’illusoria quanto malintesa tolleranza, la Chiesa venisse invece a trovarsi involontariamente a collaborare con quanti provano ad annientare la nostra tradizione, la nostra cultura, i nostri buoni principi e pure le loro radici cristiane.