Sull’ingegnere ucciso in Nigeria l’Italia decide di farsi (ancora) male da sola

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Sull’ingegnere ucciso in Nigeria l’Italia decide di farsi (ancora) male da sola

10 Marzo 2012

Il 15 febbraio 1942, dopo un attacco durato una settimana, 23.000 giapponesi invasero Singapore, prendendo prigionieri circa 100.000 militari britannici. Insieme al fallito sbarco britannico a Gallipoli nel 1915, la sconfitta di Singapore rappresenta uno dei più clamorosi ed umilianti episodi di incompetenza militare dello scorso secolo.

Al di fuori della cerchia degli storici militari, le disfatte di Gallipoli e Singapore sono poco conosciute, e soprattutto non sono direttamente associate all’esercito britannico. La disfatta di Caporetto, invece, la conoscono anche i bambini, ed invece che contingente, viene spesso considerata un evento rivelatorio e simbolico delle (carenti) qualità belliche italiane.

Tale “gap” non si deve solo al fatto che la storia la scrivono i vincitori. In Italia continuamo ad avere una nutrita minoranza, forte nel settore “culturale” e generalmente collegata alle tradizioni di origine cattolica o marxista, sempre pronta a maltrattare il nostro Paese.

L’ editoriale “Lo schiaffo” (di Antonio Puri Purini sul Corriere della Sera del 9 Marzo) sulla vicenda dell’ostaggio italiano ucciso in Nigeria ne è un esempio classico. Parliamoci chiaro: se fossimo stati noi ad uccidere un ostaggio inglese in un’azione militare non concordata con Londra, avremmo avuto “torto e basta”, ed i corsivi sdegnati dei nostri soloni si sarebbero sprecati.

Nessuno, dico nessuno, avrebbe avuto l’ardire di attribuire un concorso di colpa ai britannici. Ma siccome l’azione l’ha fatta Londra, e l’ostaggio ucciso è italiano,  allora leggiamo – guarda un po’ – che “quando avvengono questi incidenti le colpe sono generalmente ripartite (un poco come nei divorzi)”.

Ed eccoci qui, solerti e puntuali nell’appuntamento con l’autolesionismo nazionale e, sopratutto, con la solita confusione ed incertezza etica e morale, la solita incapacità di giudizi chiari e netti, cammuffata da prudente moderazione, come se la verità fosse “sempre nel mezzo”- e pazienza se “il mezzo” diventa così una variabile dipendente, e quindi un vero e proprio premio alle argomentazioni estreme. Vorrei capire, per esempio, nel caso della TAV, dove le contestazioni violente di un minoranza collocherebbero il famoso “mezzo” in cui, immancabilmente, si troverebbe la verita’.

La verità, infatti, è talvolta, ma non sempre, dogmaticamente, “nel mezzo”. E lo stesso vale per separazioni e divorzi: se un coniuge è violento, psicopatico o promiscuo, proprio non si vede come si possa giungere ad offendere ulteriormente l’altro, ipotizzando, appunto, una sua corresponsabilità.

Sarebbe un’ulteriore, bruciante e gratuito schiaffone, come è, in ultima istanza, l’editoriale in questione per la dignità del nostro Paese. Non resta che sperare che all’estero passi inosservato. Specialmente in India.