Sull’Università servono idee chiare. Quelle del centrodestra

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Sull’Università servono idee chiare. Quelle del centrodestra

02 Aprile 2008

Dal mondo dell’università giungono
due notizie in rapida successione. La prima concerne il definitivo abbandono,
dopo lo stop della Corte dei Conti, del bando di reclutamento straordinario di
3.000 nuovi giovani ricercatori, da varare seguendo tanto inedite quanto
complicatissime regole. La seconda consiste nella “secessione dolce” praticata
da 19 atenei i quali, prendendo di fatto distacco dalla Crui (la Conferenza dei
Rettori), hanno proposto allo Stato uno scambio privilegiato: rigore
amministrativo contro maggiori finanziamenti.

Negli ultimi due anni sono stato un
critico implacabile ma non irrispettoso della politica del Ministro Mussi. Essa
mi è parsa portatrice di un’ambizione tanto grande quanto velleitaria: quella
di razionalizzare lo statalismo che ancora pervade il mondo dell’università. Da
qui commissioni su commissioni nel tentativo di identificare i metodi di
valutazione degli atenei ineccepibili; di individuare gli strumenti della “selezione
virtuosa”; di rilanciare l’accordo tra Stato e atenei su basi rinnovate,
compatibili con la grave situazione dei conti pubblici.

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Non credo mi sia sfuggito l’obiettivo
che si trovava alla base dell’intero progetto: quello di realizzare una sorta
di Perestroika dell’università. Esattamente come la Perestroika per il mondo
comunista, però, la proposta è giunta fuori tempo massimo, quando le basi del
sistema si erano da tempo disgregate rendendo indispensabile proporne uno
alternativo.

Questo convincimento mi ha portato a
scorgere una correlazione tra le due notizie che l’attualità ci ha proposto. La
prima ha infatti attestato l’inutilità di continuare a puntare su di un sistema
di reclutamento fondato astrattamente sul merito, senza attivare meccanismi di
concorrenza esterni e interni. Non si risolve nessun problema della nostra
università immettendo 3.000 ricercatori sottopagati, anche se lo si fa con
regole sulla carta più rigorose. Si replica soltanto la politica delle “ondate”
successive che da decenni regola gli ingressi nell’università italiana e per la
quale chi non si trova al posto giusto al momento giusto, indipendentemente dal
suo valore, resta sostanzialmente fregato.

La seconda notizia, invece, ha
evidenziato che la concorrenza non può più restare estranea alla cittadella del
sapere. I 19 atenei autoproclamatisi virtuosi hanno di fatto affermato: “Noi siamo
i più seri e per questo lo Stato deve privilegiarci, almeno fino a quando non
ci sarà chi riuscirà a produrre risultati migliori dei nostri”. Il metodo può
essere discusso ma, per chi guarda alla luna, e non al dito che la indica, la cosa
resta d’enorme importanza. Essa, per il mondo universitario, potrebbe
rappresentare una rottura della portata di quella che si produsse nel sindacato
con la fine dell’unità della triplice o nel sistema radio-televisivo con la fine
del monopolio. L’occasione, per questo, non va smarrita. Semmai bisogna far
qualcosa per ampliarne e precisarne gli effetti.

Il limite dell’intervento dei 19
atenei, infatti, è quello di insistere unicamente sui finanziamenti statali,
evidenziando come solo chi abbia i conti in regola e non consuma tutto ciò che
lo Stato gli trasferisce in stipendi per il personale possa ambire a fare
ricerca. Non si tratta, sia chiaro, di una diagnosi sbagliata ma di una
diagnosi parziale. Per uscire dall’età dello statalismo e rimettere in corsa la
nostra università sottraendola al destino di declino che si profila, serve
anche altro. Di seguito mi soffermo su alcuni punti che vanno precisati e
specificati ma che si prospettano come un sistema coerente d’interventi urgenti
e indispensabili.

Per quanto concerne il reclutamento, sostengo
il ritorno alla libera docenza: responsabilizzando le differenti corporazioni
ai loro massimi livelli, lo Stato concede una patente all’insegnamento che
rende possibile a chi la consegue di stipulare un contratto con un’università,
tra quelle riconosciute. Ciò produrrebbe un duplice effetto: eviterebbe il
fenomeno degli incarichi assegnati “a cani e porci” attualmente in vigore. E
metterebbe i differenti atenei nella condizione di concorrere per cercare di assicurarsi
i docenti migliori: quelli con maggior nome, in grado d’attirare studenti. Ma
anche quelli che porterebbero all’ateneo maggiori risorse, grazie alla loro
rete di contatti e alla partecipazione a ricerche nazionali e internazionali.

Affinché questa dinamica si produca,
sono però necessarie regole che incoraggino la concorrenza sul piano sia
interno sia esterno. Nel primo ambito, una parte almeno dello stipendio del
docente dovrebbe essere riservata alla libera contrattazione in modo che ad
impegni differenti a favore dell’istituzione non corrisponda, come oggi accade,
la stessa retribuzione. Per quel che riguarda la concorrenza esterna, va
perfezionato (esisteva già sotto il ministero Moratti) un meccanismo per
graduare i trasferimenti dallo Stato a seconda dei risultati conseguiti; va
incoraggiata la differenziazione delle competenze didattiche e di ricerca,
soprattutto per quel che concerne l’eccellenza, perché è inconcepibile che
università situate a venti chilometri di distanza facciano le stesse cose ed
abbiano la stessa offerta. Infine, in controtendenza, va predisposto un
programma d’aiuto statale per l’eccellenza in campo umanistico: per quelle
branche del sapere che più difficilmente trovano finanziamenti sul mercato ma
senza le quali una nazione perde la propria identità e i propri punti
d’orientamento.

Dopo reclutamento e concorrenza, un
terzo pacchetto d’iniziative dovrà riguardare le liberalizzazioni. Contro lo
sprigionarsi incontrollato della creatività accademica e contro la tentata
clonazione dei docenti ( si è arrivati anche ad affidare sei corsi ad un
medesimo essere umano), i corsi di laurea e gli esami veramente fondamentali
chdovranno essere fissati dal centro. Per il resto, i curricula dovranno essere
liberalizzati, fatti evadere dalla gabbia dei crediti che li ha fin qui
imprigionati. Un perfezionamento del sistema di borse di studio per i bisognosi
meritevoli e l’istituzione di prestiti d’onore potrà permettere la fondamentale
liberalizzazione delle rette. Così come bisognerà ancora rafforzare gli
interventi per incoraggiare l’arrivo di finanziamenti privati, fin qui non al
livello di un paese occidentale sviluppato.

Insomma, la ricetta è chiara: portare
al centro poche ma essenziali competenze di accreditamento e di controllo per
lasciare tutto il resto all’effettiva autonomia degli atenei. Su queste basi,
la difficile ma necessaria ricerca di più fondi pubblici potrà ambire a non
implementare un sistema ormai antiquato e in costante perdita di competitività,
come purtroppo attestato da tutte le graduatorie internazionali. Questo è il
vero scambio che il prossimo governo dovrà proporre a tutti i Rettori, e non
solo ai “dissidenti”: il suo aiuto in cambio della disponibilità a realizzare
quel che da troppo tempo si preferisce rimandare.

Un decalogo (più uno) per salvare l’Università