Surrealisti, marxisti e gli anni rossi di Luis Buñuel
14 Marzo 2010
Nel corso degli anni Trenta gli intellettuali occidentali ebbero la netta sensazione che il solo pericolo per la libertà venisse dal fascismo. Certamente dalla matrice italiana. Ma soprattutto dalla variante tedesca. Il comunismo rimase per lo più un oggetto misterioso e sconosciuto. E la non conoscenza di questo pianeta portò la stragrande maggioranza degli intellettuali ad apprezzare il comunismo. A credere nella rivoluzione di Lenin. A convincersi che nell’Unione Sovietica stava crescendo, rigogliosa, un’isola felice dove prosperavano socialismo e libertà. Per prendere coscienza della natura totalitaria del comunismo ci volle molto tempo. Molte separazioni. Molti lutti. Molti scontri.
Uno scontro al tempo stesso fisico e simbolico, avvenne di mattina presto, nel 1935, sul boulevard Montparnasse a Parigi. A scontrasi furono due scrittori. Il primo era Il’ja Erenburg, corrispondente a Parigi della «Izveztia», romanziere di origine ebraica, era l’intellettuale di riferimento di Willi Münzenberg, il «miliardario rosso», l’uomo dalla doppia vita: in apparenza instancabile finanziatore e organizzatore di iniziative a sostengo della libertà minacciata dal fascismo, in realtà al servizio di Stalin (e da Stalin fatto uccidere nel 1940). Il secondo scrittore era André Breton, il «papa» del surrealismo, entrato in rotta di collisione con il comunismo dopo aver scherzato un po’ troppo con la rivoluzione.
Nel 1932 il Partito comunista francese aveva posto fine ad ogni ambiguità: o comunisti o surrealisti. Il movimento si era spaccato. Breton era stato inflessibile: si resta ciò che si è sempre stati, allergici ad ogni inquadramento e quindi rivoluzionari veri poiché surrealisti. Salvador Dalí, da tempo in odore di eresia e più volte processato per la sua allergia al comunismo, se la rideva divertito. Erenburg, per dare una mano nell’operazione di screditare i surrealisti, aveva pubblicato un volume di ritratti letterari nel 1934 presso Gallimard, demolendo, con insulti personali, i principali esponenti del movimento guidato da Breton. Li aveva definiti pornografi, pederasti, feticisti, esibizionisti, onanisti e ostili all’Unione Sovietica dove la gente lavora, mentre loro vivono facendosi mantenere dalle donne o dilapidando patrimoni familiari. Erenburg uscito di casa per portare a passeggio il cane, fu raggiunto da Breton dinnanzi ad una tabaccheria. Il «papa» surrealista si presenta: pornografo, e giù uno schiaffo. Nemico dell’Unione Sovietica, e un altro. Mantenuto, un terzo. Pederasta, ancora un manrovescio.
Dagli schiaffi di Montparnasse parte il racconto di Herbert Lottman Rive Gauche. Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla Guerra fredda, appena pubblicato presso le Edizioni Silvestre Bonnard, storia di come la Parigi dell’irriverenza avanguardista nel corso degli anni Trenta si sposta da Montparnasse alla vicina Saint-Germain-des-Pres, per trasformarsi nell’impegno ideologico a sostegno della rivoluzione d’ottobre, del partito bolscevico, dei Soviet, di Lenin e di Stalin.
La rottura tra surrealisti e comunisti era iniziata nel 1932 con l’«affaire Aragon». Louis Aragon, dopo Breton, poteva considerasi la massima espressione del verbo surrealista. Entusiasticamente, come tutti i surrealisti, nel 1930 era passato al comunismo, in sintonia con il Secondo manifesto pubblicato appositamente da Breton, e con la trasformazione della rivista «La Révolution surréaliste», diventata «Le Surréalisme au service de la Révolution». Aragon nel gennaio 1932 pubblica Front Rouge, un poemetto che infastidisce i comunisti. Il fuoco di risposta parte immediato e ufficiale, sulle pagine del quotidiano di partito «L’Humanité». I surrealisti reagiscono. Aragon viene convocato dalla direzione del partito, e gli viene posto un ultimatum: o con noi o contro di noi. Lo accompagnano un giornalista e cinefilo che diventerà un grande storico del cinema, Georges Sadoul, e il regista aragonese Luis Buñuel, che insieme al pittore e inseparabile amico Salvador Dalí, ha realizzato i manifesti della rivoluzione surrealista per immagini: Un chien andalou (1928) e L’Âge d’or (1930). I tre poco dopo abbandonano il movimento di Breton. Buñuel nelle memorie ricorda la rottura, ma è categorico: «non mi sono mai iscritto al partito». Infatti aveva ragione. Non si iscrisse al Partito comunista francese perché era già iscritto a quello spagnolo. Il documento ufficiale che smentisce la versione di Buñuel, fu trovato dallo storico del cinema spagnolo Román Gubern nel 2000, presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, nel fascicolo sul «caso Aragon».
Buñuel aveva scritto una lettera a Breton, datata 6 maggio 1932, per motivare l’abbandono del surrealismo. Dopo il ritrovamento della lettera, ne è nata una ricchissima ricerca a vasto raggio, operata dallo stesso Gubern e dall’inglese Paul Hammond, Los años rojos de Luis Buñuel, pubblicata dall’editrice madrilena Cátedra. Nel saggio, molto documentato, viene ricostruita una «vita esemplare», quella del regista aragonese, rappresentativa del favore concesso da molti intellettuali europei negli alla causa del comunismo. Una vita sulla quale il protagonista stesso ha fatto calare, lui così prodigo di dettagli riguardanti altri aspetti, il silenzio della memoria.
La rottura col surrealismo significò anche la definitiva separazione del sodalizio artistico con Salvador Dalí. Quest’ultimo lo accusò di aver ammorbidito la carica iconoclasta di L’Âge d’or, attraverso il taglio di alcune scene. Buñuel, rinnega l’estetica surrealista girando nel 1933 il documentario realista Las Hurdes (conosciuto anche come Tierra sin pan). Lavora in Spagna per una compagnia di produzione, la Filmofóno, dietro la quale c’è la «longa manus» di Willi Münzenberg. Poi, con la vittoria del fronte popolare nel 1936, e lo scoppio della guerra civile, si trasferisce a Parigi, con l’incarico di funzionario presso l’ambasciata di Spagna. E quando Franco avrà la meglio, deciderà di espatriare negli Stati Uniti con un visto repubblicano. Giunto in America, si barcamena come può. Scrive all’antico compagno di studi e di fede surrealista, Salvador Dalí, che si trova a New York, naviga nell’oro e lascia laute mance a chiunque. In nome dell’amicizia Buñuel gli comunica i dubbi sull’impegno rivoluzionario e la richiesta di un aiuto economico. L’eccentrico pittore gli risponde il 16 aprile 1939 su carta intestata dell’albergo dove risiede, il Saint Moritz davanti al Central Park.
«La tua nuova posizione – scrive Dalí – mi appare molto più realista dell’idealismo marxista. Il mio consiglio di amico, è di disinfettarti da tutti i punti di vista marxisti». Il marxismo, prosegue, «è la teoria più imbecille della nostra civilizzazione». Soldi non ne arrivarono. Ma gli anni rossi di Buñuel, pur tra mille difficoltà, stavano finendo.