Tassare i redditi alti rallenta l’economia

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Tassare i redditi alti rallenta l’economia

12 Marzo 2009

 

“Di fronte alla crisi e alle famiglie in difficoltà serve «un contributo straordinario» per il 2009 di due punti sui redditi superiori ai 120 mila euro, cioè come quelli dei parlamentari, per finanziare 500 milioni da destinare al contrasto della povertà estrema”. Questa la notizia che ieri rimbalzava su tutte le agenzie ed aveva, come propulsore il neo segretario del PD Franceschini. Quali le ragioni di questa proposta? Solo una provocazione demagogica? Nelle finanze, non altrimenti che in ogni altra disciplina, la scienza si distingue in ciò che osserva e descrive, suppone l’ingegno e la volontà, che fanno tesoro delle sue scoperte ed applica i suoi precetti.

Da una parte la scienza della finanza tocca alla politica o scienza del buon governo delle nazioni; dall’altra, all’economia, scienza della ricchezza. Quando il barone Louis esclamava: donnez-moi de la bonne politique et je vous donnerai de la bonne finance, esprimeva il primo di questi rapporti; e al secondo si ispirava il vecchio adagio della curia francese: là oh il ni ja rien le roi perd ses droits. Quello che distingue, però, ontologicamente la finanza dalle altre due discipline accennate, è che queste sono scienze di fini e quella invece è scienza di mezzi.

Ora sia la finanza pubblica che quella privata poggiano su alcuni principi pressocchè identici: nell’una come nell’altra le spese non devono, di regola, eccedere le entrate. Nell’una come nell’altra i casi straordinari possono determinare una spesa straordinaria eccedente l’ordinaria entrata: “il malato non guarda al costo della cura o della operazione chirurgica che deve mantenerlo in vita o ridonargli la salute; lo Stato in supremo pericolo non esita a ricorrere alla carta monetata o ad un prestito a condizioni onerose”. Fin qui, credo – anche se un po’ semplificato – che Franceschini possa aver seguito un ragionamento del genere. Nonostante però l’intrinseca identità tra la finanza pubblica e la privata, una grande differenza corre pur tuttavia tra esse, non tanto per la ingenza dei valori che ne formano l’oggetto quanto invece per il criterio stesso al quale le due finanze si ispirano.

Nella economia privata sono le entrate che misurano e limitano le spese; mentre nella economia pubblica sono le spese che determinano quantitativamente le entrate. Dati i bisogni dello Stato, deve questo procurarsi i mezzi per soddisfare quei bisogni: la legittimità dei mezzi finanziari è fondata sull’esistenza dei bisogni ai quali si tratta di provvedere. Mentre corre a certa rovina quella famiglia il cui bilancio non regoli le partite del passivo su quelle dell’attivo disponibile, lo Stato invece comincia dal fissare i pubblici servizi, ai quali immediatamente dopo equipara il provento delle imposte e delle altre fonti di reddito.

Le fonti, alle quali lo Stato e le amministrazioni locali attingono i mezzi finanziari per adempiere i loro fini, che sono i servizi pubblici, appartengono a due primarie categorie e ad una derivata. La prima comprende tutti quei mezzi finanziari che hanno per base un concetto, più o meno completo, di proprietà. Lo Stato, l’Amministrazione locale percepisce, attraverso di essi, una rendita immediata, avente un titolo giuridico identico od analogo al titolo col quale percepisce le sue rendite il privato cittadino quello che in termini giuridici viene definito lo jus domini. Il loro complesso costituisce appunto il Demanio. Alla seconda classe appartengono tutti quei mezzi finanziari che hanno unicamente il loro fondamento nel concetto di sovranità. Lo Stato, l’Amministrazione percepisce una rendita mediata, attinta alle rendite immediate dei cittadini. Il titolo giuridico, la ragione di essere di questa parte delle rendite pubbliche, è il diritto stesso di sovranità e la sua forma è il tributo. Ora il tributo è di due specie: imposta, quando il tributo è una quota determinata della ricchezza dei privati, prelevata dai pubblici poteri per provvedere ai servizi pubblici. Tassa, quando è retribuzione di servigi pubblici particolarmente domandati dai privati.

Di fronte ad ogni questione economica, lo stabilimento dei tributi in generale e delle imposte in modo speciale presenta una duplice questione giuridica: l’imposta deve essere legittima nel suo assetto, giusta nella sua distribuzione. L’assetto di un’imposta, ed anzi più genericamente di un tributo, ha per base di sua legittimità l’esistenza e l’entità dei pubblici servizi.

In tanto è legittimo il prelevamento della quota presa dalla “fortuna” o ricchezza dei contribuenti, in quanto è necessario e sufficiente a provvedere ai servizi pubblici accertati. Al di là di questa necessità, il prelevamento non è imposta, non è tributo: è spogliazione! Al di qua di questa sufficienza, il prelevamento non adegua il suo scopo, non ha ragione di essere.  È in un altro ordine d’idee che è necessario cercare la base della giustizia contributiva. Se l’imposta è, per definizione, una quota determinata della ricchezza dei privati per assicurare e mantenere l’andamento dei pubblici servizi, è cosa evidente che, stabilita una volta la legittimità dell’imposta medesima col criterio della sua necessita e della sua sufficienza in rapporto ai servizi pubblici, altro non resta che a metterla in giusta proporzione con la ricchezza dei privati.

L’imposta nell’un caso è posta in relazione all’entità dei servizi, in virtù dei quali è costituita; dall’altro tocca la ricchezza dei cittadini, a beneficio dei quali i servizi pubblici sono organizzati. L’imposta è giusta quando è proporzionata agli averi dei contribuenti. Nell’ambiente democratico in cui si svolge la società moderna, la relativa importanza “numerica” delle classi facoltose va a grado a grado scemando, e s’innalza invece continuamente e rapidamente il livello delle classi medie e delle basse, purtroppo.

Se il progredire dell’imposta viene a consumare le rendite che il risparmio ha accumulate, ne seguirà non solamente quell’effetto che alla sagacia del Guicciardini non sfuggi quando, combattendo il tributo progressivo della Decima scalata in Firenze, osservava che "i ricchi si leveranno dalle industrie e andranno ad abitare altrove”. Facciamo così: visto che Franceschini non ha la minima cognizione del tutto e sembra provocare, proviamo a far pagare di meno ai molti, troppi poveri e che nessuno venga poi a dire: “giustizia è eguaglianza di misura, è esclusione di arbitrio e di privilegio. Se odioso è il privilegio a favore dei pochi ricchi, non è punto laudabile il privilegio a prò dei molti poveri”.