Tenetevi Mazzini e l’anglomania. A noi ridateci i Promessi sposi e l’italiano

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Tenetevi Mazzini e l’anglomania. A noi ridateci i Promessi sposi e l’italiano

19 Febbraio 2012

Le celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia si sono concluse e, come prevedevano i più pessimisti, il risultato di tanti festeggiamenti, rievocazioni, cerimonie ufficiali è stato il gran cumulo di cenere prodotto dai numerosi fuochi di retorica paglia. La ‘nazione’è morta nel cuore degli italiani: per colpa del fascismo che fece la catastrofica alleanza con la Germania; per colpa di quei cattolici, tradizionalisti o democratici, che non hanno mai elaborato il lutto del ‘maltolto’, della fine del potere temporale e dell’espropriazione dei beni della Chiesa; per colpa delle varie correnti della democrazia sociale, che continuarono a guardare al Risorgimento come a un sogno tradito; per colpa dei campanilismi e dei regionalismi, da sempre in urto con lo Stato moderno accentratore—fosse quello ‘illuminista’ o quello sabaudo.

Stando ai discorsi ufficiali, ai convegni, ai cortei dinanzi ai monumenti della patria, l’unità nazionale la dobbiamo, soprattutto, ai due Giuseppe, Mazzini e Garibaldi:sullo sfondo resta ancora il gran conte, Camillo Benso di Cavour, mentre quasi nessuno ha reso gli onori che pur gli si dovevano al Re galantuomo, Vittorio Emanuele II, e al padre suo, Carlo Alberto, che aveva detto a Massimo D’Azeglio, reduce dal viaggio negli stati pontifici e colpito dal malgoverno della Romagna:  <Faccia sapere a que’ Signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che siano certi, che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita de’ miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana>. Ma soprattutto non si è avuto il coraggio di riconoscere che a fare l’Italia sono stati, in misura determinante, i cattolici moderati—i Gioberti, i Rosmini, i Balbo, i Manzoni, i Capponi, i Lambruschini, i Minghetti etc.

Indipendentemente dal valore (ineguale, certo) delle loro dottrine, essi erano in grado  di condizionare e di ‘educare’ l’opinione-pubblica-che-conta  ovvero quelle disposizioni della mente e del cuore degli <attori sociali che, nelle varie epoche, fanno la storia> (con la loro partecipazione attiva o con il loro consenso—o dissenso– alle classi dirigenti del proprio tempo) e che, negli anni di preparazione delle guerre d’indipendenza, erano l’aristocrazia colta e illuminata, le classi borghesi in ascesa, le professioni liberali, i parroci (non pochi) aperti al nuovo, i gazzettieri, gli artisti, gli scienziati, i letterati. Se questi ceti che costituivano il nerbo della nazione non si fossero convinti della necessità di ‘ricongiungere l’Italia all’Europa vivente’, non sarebbero stati certo Mazzini e Maurizio Quadrio  a raggiungere l’obiettivo unitario. Come scriverà Gramsci nei Quaderni del carcere:« Il Partito d’Azione |…| era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazzi­niane di una riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Rivoluzione francese era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a molti­plicare i loro aderenti nelle province, furono danneggiati dai tenta­tivi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una concretezza imme­diata.».

Eppure non un Convegno è stato dedicato a Lambruschini, a Mamiani, a Ricasoli. Ripudiati dai cattolici ‘revisionisti’ (una loro casa editrice ha pubblicato o sta pubblicando una violenta requisitoria contro Manzoni), non amati dalla cultura di sinistra che non discende certo dai loro magnanimi lombi, i cattolici moderati– che poi erano i liberali dell’epoca, pur se non sempre tali a 360 gradi—non hanno avuto alcun riconoscimento ma l’Italia, come sostanza etica e culturale specifica, era <cosa loro>, stava di casa più nelle loro biblioteche che tra gli esuli politici della democrazia repubblicana e socialista, fissi a una rivoluzione sociale e istituzionale che avrebbe gettato quelli che abbiamo definito< gli attori sociali che, nelle varie epoche, fanno la storia> tra le braccia della reazione.

Le dimenticanze, però, si pagano e la cancellazione del nocciolo duro dell’italianità che, nell’800, ribadiamo, era moderato, liberale e cattolico, si è tradotta nella retorica falsa e bugiarda dei riti istituzionali che hanno reso onore a un simulacro vuoto (perché svuotato dei suoi contenuti storici reali) e hanno esaltato il Risorgimento solo nella sua pars destruens, come momento della caduta dell’antico regime in Italia e dei suoi pilastri statali oggettivamente retrogradi (a cominciare dallo Stato della Chiesa e dal Regno delle Due Sicilie). Dello <specifico nazionale> che si voleva rafforzare e salvaguardare non s’è fatto cenno e anzi s’è avuta la sensazione che la grandezza storica dei protagonisti, democratici ma non liberali, delle guerre d’indipendenza—i due Giuseppe citati—consistesse nel loro coté europeista, nell’essere in prima fila nella marcia del Progresso contro i simboli viventi della vecchia Europa dinastica e controrivoluzionaria. Mazzini è l’incubo di Metternich e delle polizie della Santa Alleanza, non è il giovanissimo autore dello scritto sull’amor patrio di Dante. Garibaldi è l’eroe dei due mondi, che accorre in difesa di tutti i popoli oppressi, non è il ‘nazionalista’ (nel senso inglese del termine sotteso alla massima ‘right or wrong, my country’) che, nel romanzo inedito Manlio, scriveva: < Eppure se v’è una nazione che abbisogni d’una marina forte e certamente l’italiana, colle sue immense coste di mare, col suo esteso commercio e colla gelosia de’ suoi potei vicini, che giammai le perdoneranno di disputar loro il dominio del Mediterraneo, di cui essa sarebbe sempre il cuore se non dimenticasse in una vergognosa inerzia ciò che fu e ciò che può esser ancora.>.

Se in primo piano, nella lotta per l’indipendenza dallo straniero, sono emersi i rivoluzionari è perché li si è avvolti nel mantello del buonismo melassoso che ormai contrassegna le nostre facoltà umanistiche, i nostri quotidiani, le nostre istituzioni culturali. Di quel mantello, invece, non possono usufruire i costruttori decisivi dell’edificio unitario che erano sì, naturaliter europei—per educazione, per legami familiari transnazionali, per conoscenza delle lingue—ma che guardavano ad un ‘Italia che doveva rimanere fedele a se stessa, alle proprie radici, ai propri costumi (civili, religiosi etc.) e aprirsi al mondo non per rinnegare l’esistente ma per arricchirlo e rafforzarlo con quanto di buono poteva venire da fuori.

Abbiamo celebrato i nostri 150 anni di vita senza chiederci <chi siamo stati, chi siamo, chi vogliamo essere>: ci siamo richiamati ai valori alti e forti della ‘modernità’senza chiederci quali valori costituiscono la nostra identità più profonda e quali vogliamo conservare e trasmettere intatti alle nuove generazioni: abbiamo festeggiato la nascita di una creatura di cui ci siamo compiaciuti unicamente per la sua somiglianza (supposta) a tutte le altre nazioni dell’Occidente.

A questo punto, ci si può meravigliare che in una prestigiosa Università della capitale le lezioni si svolgano in inglese e che i curricula dei professori della Sapienza (il più antico e prestigioso ateneo statale romano) debbano anch’essi venir redatti in inglese? (Ad essere più à la page, bisognerebbe promuovere l’anglo-americano e non la lingua della vecchia Albione). E d’altra parte, why not ? Perché si dovrebbe perdere ancora tempo a parlare e a scrivere nella lingua di Dante, di Manzoni, di Leopardi, di Benedetto Croce? Viviamo nell’era della globalizzazione e l’inglese è la lingua universale, che favorisce gli scambi, i movimenti di uomini e di capitali,è la risorsa culturale (assieme al computer, per citare il Cavaliere) che rende più agevoli gli impieghi e le comunicazioni interindividuali.

E’ concepibile che si spendano tanti euro per comprare il monumentale ‘Grande Dizionario della Lingua Italiana’ di Salvatore Battaglia? E a che pro’? Per la curiosità di registrare i vari usi e significati delle parole, dall’uso del ‘volgare’ nelle produzioni letterarie ai nostri giorni, passando per l’Accademia della Crusca? Un tempo i Lamartine, i Nietzsche, i Burckhardt imparavano l’italiano per leggere i nostri classici, i nostri scienziati, i nostri filosofi. Oggi non li leggiamo più noi perché gli altri li leggono sempre meno: parliamo una lingua poco conosciuta e insegnata nel resto del mondo e, pertanto, rassegniamoci al calcolo utilitario che due ore d’inglese sono più produttive di due ore d’italiano. In fondo, l’idioma gentile verrà ancora parlato a lungo, nelle famiglie e tra gli amici, ma come oggi il dialetto :non imporrà più la sua inutile disciplina grammaticale e sintattica alle generazioni del new world.

Le nostre classi dirigenti (di destra e di sinistra) non hanno minimamente avvertito il paradosso di questa rinuncia alla nostra dignità, alla nostra storia, alla nostra cultura che si sta  consumando proprio in quelle istituzioni (le Università) che, come ricordò anni fa Pietro Piovani, fiorirono a nuova vita in funzione dello stato nazionale. E’ vero che non si sono chieste neppure in quante Facoltà italiane s’insegni ancora la ‘Storia del Risorgimento’ ma, in tal caso, si poteva sempre supporre (sia pure a torto) che quella storia fosse riassorbita nella più ampia storia moderna e contemporanea. E’ una vicenda, questa, che si colora di tetre tinte neogotiche giacché si è esaltato il compimento dell’unità d’Italia proprio nel momento in cui a quanto rappresentava l’Italia, in fatto di arte, di lingua, di tradizioni intellettuali, si stava dando non onorevole sepoltura..nel mitico ‘cimitero degl’Inglesi’.

Ma c’è un aspetto di questa vicenda ancora più paradossale ed è costituito dal fatto che i modernizzatori, quelli che sognano asili infantili in cui sarà obbligatorio parlare in inglese, appartengono a una political culture che detesta l’<America profonda> dei primi film di Clint Eastwood, dei cow boys, dei fondamentalisti religiosi, dei farmer delle Grandi Pianure, e dei movimenti populisti antitasse. L’unica America ad essi congeniale è quella wasp (bianca, anglosassone, protestante) ma soltanto quando vota per i democratici o esprime, nei costosissimi college della costa orientale, una classe intellettuale newdealer, keynesiana, liberal. Il ‘grande paese’ dei texani, dei Reagan, dei Barry Goldwater, per gli anglomani nostrani, è populismo becero, una minaccia per la democrazia e per la civiltà. Se non esprimono dirigenze politiche di sinistra, gli Stati Uniti perdono le loro simpatie anche se poi essi continuano a intrattenere cordiali rapporti di collaborazione,a tutti i livelli, con la parte sana della Nation.

Nel loro comportamento e nei loro gusti, però, c’è una ‘logica’ iscritta nel disegno oggettivo degli eventi. A ben riflettere, la loro fortuna è legata alla   ricerca crescente di ‘mediatori’ semi-istituzionali tra le due rive dell’Atlantico. In un’economia capitalistica ‘a norma’, sarebbero i manager e gli incaricati d’affari dei consolati ad occuparsi delle vendite e degli acquisti, con costi  convenienti per i paesi che intrattengono relazioni commerciali. Quando, invece, le cose si complicano e, a causa delle sfide della globalizzazione e delle responsabilità maggiori che i governi sentono nei riguardi delle società civili penalizzate dall’apertura delle frontiere, subentrano strategie non più di  mercati  ma di  stati e di governi. Subentra, allora, il bisogno di raffinati diplomatici in grado di tessere collegamenti di confine tra gli istituti di ricerca come le università, le banche,le imprese, i ministeri.

Per questo occorre una comune koinè culturale e, soprattutto, una lingua comune: gli atenei si collegano alle imprese, queste ai ministeri e alle fondazioni bancarie in un travaso sempre più fitto di competenze, di gusti, di stili di vita. Si organizzano, in Europa e oltreoceano, seminari in cui si dibattono il ‘maximin’ e l’’ospite velato’ di John Rawls ma, tra le quinte dei convegni e durante le ricche cene, s’incontrano autorevoli membri dell’amministrazione, rappresentanti delle istituzioni bancarie, i maggiorenti delle comunità che hanno fatto fortuna nel paese straniero, gli economisti e le teste d’uovo che sanno stare al mondo e come ottenere che cosa, da chi e a quali prezzi.

L’imperialismo della lingua inglese, insomma, potrebbe essere l’ideologia–intesa marxianamente come falsa coscienza e razionalizzazione :un interesse particolare contrabbandato con un valore universale– di una ‘nuova classe’—upper class— impegnata nel promuovere l’omogeneizzazione e la standardizzazione culturale ovvero un mondo in cui la lingua del jet set sia parlata in ogni angolo e non si perda tempo a leggere I Promessi Sposi (a meno che non vengano ridotti in un agile compendio…in inglese, of course).

Per certi aspetti, questi nemici giurati del capitalismo selvaggio, dell’uomo della strada, della massificazione hanno interiorizzato proprio la quintessenza del modello sociale da loro più detestato, anche se la loro antipatia si avvale della retorica liberalsocialista—‘mercato, sì, ma «con juicio», iniziativa privata, sì, ma con lo Stato pronto a ‘correggere’ e a far valere, comunque, il ‘bene comune’.Mi riferisco al primato della quantità sulla qualità ovvero alla trasformazione della seconda nella prima ma solo quando fa comodo al potere. Allorché dicono che l’aver scritto un saggio in italiano, che non sia stato tradotto in inglese–e che, quindi, non possa venir letto (in teoria) da un grande numero di persone–, è come non aver scritto niente, non si rendono conto di porsi nell’ordine di idee del ‘numero è potenza’. Solo che, in questo caso, i <numeri> ce li hanno gli altri e a noi tocca il destino dei sudditi coloniali dei bwana bianchi.

Chi ha l’orgoglio delle proprie tradizioni artistiche e linguistiche, ne valuta la rilevanza intrinseca indipendentemente dall’audience. Tra l’avventuriero delle lettere che ha imparato bene l’inglese, è riuscito a infilarsi in qualche università americana e può vantare al suo attivo dieci (superficialissime)opere in inglese e un oscuro studioso che pubblica un nuovo Principe, non inferiore a quello di Machiavelli,ma lo pubblica in italiano, in un numero limitato di copie e per un piccolo editore di Casal Monferrato, in base alla filosofia modernista della Pubblica Istruzione, si dovrebbe, senz’altro, anteporre il primo nell’assegnazione di una cattedra universitaria.

Altro che decadenza degli studi! Qui sono calati gli Hyksos, non quelli in camicia nera tanto esecrati da don Benedetto, ma quelli col maglione di cachemire che, invece di dirti ‘va bene’, ti dicono ‘okay!’e che hanno sempre sulla bocca la governance, giacché, come ti spiegano, siamo entrati ormai nell’era della governance, caratterizzata da processi e strumenti che seppure riferiti a istituzioni pubbliche <esulano tuttavia delle tradizionali forme e dai tradizionali strumenti di governo>. Insomma, insieme all’italiano (lingua agonizzante), assieme al mercato (selvaggio), gli anglo-innovatori vogliono buttare alle ortiche anche la vecchia democrazia rappresentativa, con la sua divisione dei poteri, delle responsabilità e delle competenze. Come si vede, tout se tient, per esprimersi in un’altra lingua moribonda, il francese.