Terza, quarta persona: l’Italia di Steno c’è ancora

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Terza, quarta persona: l’Italia di Steno c’è ancora

21 Aprile 2017

Nella storia del cinema italiano capita di incontrare alcuni grandi personaggi del liberalismo italiano (da Pannunzio a Flaiano, da Metz e Marchesi allo stesso Steno) e capita di incontrarli già nell’Italia “fascistica”, eppure a suo modo già “antifascista”, come battutisti, a Milano nella redazione del “Bertoldo” e a Roma in quella del “Marc’Aurelio”. Fu l’Italia di Steno, appunto, il quale, per dirla con Fellini, rappresentò “l’anello di saldatura tra quel giornale e tanto tanto cinema”. 

Al “Marc’Aurelio” nel 1936 fu imposto di licenziare gli antifascisti. I quali però continuarono in quella testata a lavorare in anonimato. Vi si tenne così a battesimo il “battutismo”: una nuova forma di umorismo, capace di sopravvivere alla censura, anzi sfidandola con l’inesauribile scoppiettante fantasia dei giochi di parole. Le radici di tanta cosiddetta commedia all’italiana, orgoglio ma mai vanità del nostro miglior cinema, stanno nella collezione del “Marc’Aurelio”. 

Sicché Steno, l’arte di far ridere (la bellissima mostra che i suoi figli con “intelletto d’amore” hanno voluto a Roma dall’11 aprile al 4 giugno alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) è un’iniziativa di liberalismo, o meglio di storia del liberalismo, autentico. C’erano allora i grandi vecchi, da Croce a Einaudi, da Nitti a Orlando, il loro incorrotto rapporto con l’Italia, il loro ruolo di costituenti, la loro apertura alla democrazia. Ma ci fu pure una generazione, forse un ceto, di giovani intellettuali liberali che del cinema del dopoguerra volle sentirsi ed essere protagonista. Senza alcuna sudditanza per i propri coetanei arroccatisi nel comunismo, senza nulla concedere all’inseguimento di un “realismo” che li facesse evadere dalla realtà che non fosse agreable

Di quella generazione Stefano Vanzina è stato l’esponente artisticamente più importante, più continuo, più significativo. Dalla vignetta approdò alla sceneggiatura per poi (dal 1949 al 1988) farsi regista che ormai pensava, sorrideva, criticava le inquadrature. Fu il regista preferito da Totò e da Sordi. Con lui e grazie a lui l’Italia delle redazioni umoristiche portò nelle sale cinematografiche una figurina di se stessa sorridente anche nell’amarezza. Mai per farsi del male, sempre per volersi un po’ più di bene: senza ammiccare e senza far violenza al pubblico di massa.

Quel cinema, del resto, nato fra battutisti, aveva inventato i caratteristi, grandi interpreti di grandi personaggi “minori”, più che caratterizzanti. Ogni volta che l’Italia riesce a ritrovarne i ruoli, vuol dire che “l’Italia di Steno c’è ancora”. A loro modo e per tante ragioni, i fratelli Vanzina non sono affatto indegni del percorso da cui provengono: l’arte, appunto, di far ridere.