Tfr, il ministro Ferrero dispensa consigli contro la riforma
28 Maggio 2007
Niente, non è successo niente. Chi si occupa di previdenza è abituato a ragionare in tempi lunghi e, quindi, ingenuamente, abbiamo continuato a sperare in qualche sussulto ormonale anche nei giorni successivi all’evento. Nulla, non è successo nulla. Eppure i fatti parlano da soli e non sono di poco conto.
Mercoledì scorso, un Ministro della Repubblica, Paolo Ferrero (Solidarietà Sociale), ospite al Forum romano della Pubblica Amministrazione, se ne è uscito bel bello affermando, circa una scelta cruciale che in questi giorni debbono compiere milioni di cittadini, “Se un lavoratore mi chiedesse consiglio, gli direi di lasciare il trattamento di fine rapporto in azienda. I lavoratori non si fidano della pensione integrativa perché hanno sentito di troppi fondi pensione falliti”.
Quanto sta a monte della brillante dichiarazione di cui sopra, si può ricordare in poche righe. Dal primo Governo Amato (quello dell’emergenza del ’92) in poi tutti gli Esecutivi hanno cercato di favorire lo sviluppo della previdenza complementare, a fronte della prospettiva ineluttabile di un calo prospettico dei livelli (quello che i tecnici chiamano “tasso di sostituzione”) della previdenza di base.
Tutti gli Esecutivi hanno cercato di convogliare verso la previdenza complementare il TFR, posto che esso vale sette punti percentuali di retribuzione e unito ad altri tre/quattro di contribuzione fissabili dalla contrattazione collettiva (suddivisi tra datore di lavoro e lavoratore) consente di costruire una posizione di previdenza complementare che, nel lungo periodo, riesca a rivestire un significato economico, assolvendo, quindi, alla funzione di affiancare alla prima pensione di base (da ripartizione) un secondo assegno (da capitalizzazione).
Dopo la messa in campo di un ventaglio di meccanismi tecnici (di natura civilistica e fiscale), ascrivibili al Governo Dini o al primo Governo Prodi, la riforma Maroni, non riuscendo ad imboccare la via maestra dell’utilizzo obbligatorio del TFR nella previdenza complementare – almeno per i lavoratori destinatari esclusivamente del calcolo contributivo della pensione: i dipendenti divenuti tali dal 1° gennaio 1996 – con il consenso delle Parti Sociali escogitò il meccanismo, sia pure un po’ barocco, del conferimento tacito, quale alternativa residuale alla pur auspicata scelta consapevole del lavoratore.
La normativa di cui trattasi avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 2008, ma, dopo la “geniale” idea (avanzata nel disegno di legge finanziaria per l’anno 2007) di utilizzare parte del TFR per un prestito forzoso da parte delle imprese alla Tesoreria dello Stato, su pressante richiesta delle Organizzazioni Sindacali, il Governo in carica anticipò al 1° gennaio 2007 l’entrata in vigore dei provvedimenti in discorso.
Da allora il Ministro Damiano gira per il Paese a spiegare l’importanza della previdenza complementare, 17 milioni di euro sono stati destinati a una specifica campagna informativa per i lavoratori e su tale iniziativa la Presidenza del Consiglio è direttamente impegnata in prima fila.
Su tutto quanto precede, il Sig. Ferrero può certamene non essere d’accordo (ed in effetti votò contro in Consiglio dei Ministri). Forse avrebbe il dovere di conoscere meglio la tematica di cui sta strologando, con esternazioni da bar dello sport, ma in ogni caso le sue opinioni sono sacrosante. Questo però come privato cittadino. Come Ministro della Repubblica il discorso è affatto diverso. Ove non abbia il buon gusto di dimettersi, per dissenso con l’Esecutivo di cui fa parte, dopo le affermazioni di cui trattasi andrebbe cacciato dal Primo Ministro. Se questi non abbia il coraggio – in primo luogo morale – di assumere un provvedimento doveroso, il Ministro del lavoro, anziché limitarsi a lasciar trapelare considerazioni svolte in privato (“noi tireremo avanti per la nostra strada”), dovrebbe porre con forza il problema politico. Il lodevole e apprezzato impegno in favore della previdenza complementare da lui espletato non è certo una sua autonoma iniziativa, ma la conseguenza di una precisa scelta dell’Esecutivo, sostenuta da un correlativo impegno delle Parti Sociali, sindacali e datoriali.
Se nulla continuerà ad accadere, non si possono che trarre assai amare conclusioni sullo stato invero miserando del governo del Paese. Quanto ai lavoratori che malauguratamente dovessero seguire i buoni consigli di Ferrero, se tra trenta/quaranta anni godranno di un tenore di vita peggiore di quanti avranno realizzato un piano di previdenza complementare, non potranno che deprecare gli abbagli del passato. Il loro incauto consigliere potrà sempre pensirsi, in allora, dell’errore di valutazione commesso o dissociarsi dalle posizioni a suo tempo sostenute. Meglio ancora: forte della corazza dell’ideologia, potrà pur sempre incolpare il “sistema”, riuscendo persino ad autoassolversi.