È ancora una polemica in corso, quella terminologico-politica sugli eventi che nell’aprile del 2002 portarono alle momentanea deposizione di Hugo Chávez dalla presidenza del Venezuela, per poi vederlo tornare al potere in capo a 48 ore. Lo stesso Chávez parla infatti di “golpe”, con vocabolo che si è ormai largamente imposto a livello storico. O meglio, tentato golpe. In compenso, però, per quegli altri eventi che dieci anni prima lo avevano visto tentare la scalata al potere alla testa di un gruppo di militari usa il termine “Rivoluzione”, secondo un preciso gradiente ideologico: golpe = una cosa fatta da chi mi sta antipatico; rivoluzione = la stessa identica cosa fatta da chi invece mi sta antipatico. Che non è poi un criterio particolarmente raro nella pubblicistica politica: anche la differente definizione di “terrorista” o “guerrigliero” passa spesso per una valutazione del genere. Poiché però le forze antichaviste sostengono che è Chávez il golpista e d’altra parte sono però diffidenti nei confronti del termine “rivoluzione”, per quegli eventi dicono semplicemente “l’11 aprile”. O “il Carmonazo”, dal presidente a interim Carmona. Ma questi, appunto, sono criteri ideologici. Da un punto di vista più tecnico, il colpo di Stato presuppone la mobilitazione di unità militari: che ci fu in effetti in Venezuela con Chávez nel 1992; ma non in Venezuela nel 2002, quando i generali si limitarono a disobbedire al comando del governo di fatto di sparare contro i dimostranti. Sia quelli che rovesciarono Chávez; sia quelli che poco dopo lo riportarono al potere.
Dunque, tecnicamente il golpista fu Chávez nel 1992: così come Pinochet in Cile nel 1973; o Videla in Argentina nel 1976; o i generali brasiliani nel 1964. Ma anche i capitani portoghesi nel 1974 durante la Rivoluzione dei Garofani contro il regime di Caetano; o il generale Andrés Rodríguez quando nel 1989 pose fine in Paraguay alla dittatura del generale Stroessner; o il processo che nel 1989 portò alla deposizione di Ceaucescu in Romania; o anche i risorgimentali tenenti Morelli e Silvati chiedendo la Costituzione contro Ferdinando I. Insomma, la definizione la fanno i mezzi; non i fini suppostamente positivi o negativi per cui tali mezzi vengono posti in essere. Diverso dal golpe è la lotta di guerriglia condotta da bande armate: dai partigiani durante la seconda Guerra Mondiale alle Rivoluzione Cubana o Sandinista, alla deposizione di Menghistu in Etiopia, alla lotta dell’Uck nel Kosovo, fino agli eventi che nel 2004 condussero alla cacciata di Jean-Bertrand Aristide da Haiti. Diversa sia dal golpe che dalla guerriglia è la sollevazione violenta della popolazione, stile Presa della Bastiglia, Cinque Giornate di Milano, Rivoluzione di Ottobre o Rivoluzione Iraniana del 1979. E un’altra cosa ancora sono le “rivoluzioni di velluto”, come quelle dell’Europa dell’Est del 1989, salvo quella romena. Mentre la Marcia su Roma e il 25 luglio del 1943 sono altre due fattispecie ulteriori: abbastanza sui generis, e frutto di quell’inventiva che a noi italiani non è mai mancata, in nessun campo.
Cosa furono gli eventi del 2002 in Venezuela allora? Esattamente quello che sta accadendo adesso tra Thailandia, Madagascar, Georgia e Moldavia. In Thailandia, con le Camice Gialle che nel 2005 hanno rovesciato il premier Thaksin e poi nel 2008 l’altro premier Somchai Wongsawat, suo alleato; e ora con le Camice Rosse, che Thaksin stanno cercando invece di riportarlo al potere. In Madagascar, con i moti di piazza che nel 2002 hanno portato al potere Marc Ravalomanana al posto di Didier Ratsiraka; a marzo hanno portato al potere Andry Rajoelina al posto di Ravalomanana; e adesso stanno sviluppando reazione dei seguaci di Ravalomanana. In Georgia, dove nel 1992 una rivolta armata sostituì Eduard Ševardnadze a Zviad Gamsakhurdia; nel 2003 la Rivoluzione delle Rose portò al potere Mikheil Saakašvili; ma ora la piazza sta contestando anche lui. In Moldavia, con la rivolta contro i brogli elettorali.
Così come negli anni ’80 l’America Latina aveva preceduto di circa un decennio Asia, Africa e Europa dell’Est nel recupero generalizzato della democrazia, però, così negli anni ’90 l’aveva preceduta anche in questo tipo di crisi della democrazia stessa. Tre presidenti in Ecuador nel 1997, 2000 e 2005, due in Bolivia nel 2003 e 2005, uno in Paraguay nel 1999, uno in Perù nel 2000 e uno in Argentina nel 2001, a parte il caso venezuelano, erano appunto saltati per questo tipo di manifestazioni alle quali lo spagnolo ha trovato una definizione espressiva: golpe de calle, “colpo di strada”. Golpe, perché corrispondono esattamente allo stesso tipo di crisi in passato sbloccate dagli interventi militari. De calle, perché sempre meno gli uomini in divisa si azzardano a compromettere la loro reputazione in situazioni impossibili, a parte che il quadro internazionale vi è sempre meno favorevole. Così, è oggi la piazza a fare i golpe. All’occorrenza, anche i contro-golpe.