The day after (se vince il Sì)

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The day after (se vince il Sì)

The day after (se vince il Sì)

20 Settembre 2020

In tanti – in particolare fra i promotori del No – hanno presentato il referendum sul taglio dei parlamentari come una scelta tra politica e antipolitica e hanno pubblicizzato la loro decisione come una possibile rivincita, dopo aver visto cosa hanno combinato in questa legislatura quelli che sono giunti al potere professando onestà ed efficienza. La tentazione alla quale essi hanno ceduto, devo ammetterlo, anche da questa parte è stata davvero forte. Ma nella storia del nostro Paese vi erano e vi sono validi motivi per resistere.

Il fatto è che in Italia l’antipolitica – in particolare sotto le spoglie predilette dell’antiparlamentarismo – non l’hanno inventata i 5 Stelle. C’è sempre stata. Persino nell’incontro di Teano tra il Re e Garibaldi si potrebbe rintracciare, sotto sotto, un accordo provvisorio e precario tra la dimensione istituzionale e quella populista dell’unità: accordo che, non a caso, di lì a poco si sarebbe incrinato. E poi il primo dopoguerra, gli anni della ripresa dopo la seconda guerra mondiale, il Sessantotto, la rivoluzione di Mani Pulite: attraverso il conflitto tra politica e antipolitica si potrebbe riscrivere l’intera storia della nostra nazione.

Non sempre lo scontro è stato vinto dai sostenitori della politica: si pensi ad esempio a cosa accadde al termine del primo conflitto mondiale. Ma quando questo è accaduto – ed è accaduto spesso -, non è stato certo perché gli “istituzionali” riscontravano maggiori favori nella pubblica opinione. E’ successo perché essi hanno saputo utilizzare la propria “ragione sociale” (la politica, appunto) come una risorsa che, se ben spesa, è in grado di indirizzare le cose e modificare i rapporti di forza. E, grazie a questa consapevolezza, hanno infine prevalso su “quelli dell’antipolitica”.

Per questa ragione di fondo ritengo che la scelta compiuta da qualche decina di miei colleghi parlamentari di promuovere un referendum sul taglio di deputati e senatori, dopo averlo votato in Parlamento con maggioranza bulgara – sicché, ai sensi delle norme sulla revisione costituzionale, la consultazione avrebbe potuto non svolgersi salvo che fosse espressamente richiesta -, si potrebbe rivelare al dunque un autogol. Il voto costituzionale finirà infatti col concedere una boccata d’ossigeno all’agonizzante Movimento 5 Stelle che, se lasciato invece al proprio destino, avrebbe continuato a contorcersi nelle sue contraddizioni senza poter niente vantare.

Spero di sbagliarmi, ma con questa consultazione certificheremo infine che in Italia poco meno del 70% degli elettori è dalla parte dell’antipolitica e poco più del 30% aderisce all’iniziativa di chi vorrebbe sconfiggerla: numeri assolutamente reali ma che non c’era bisogno di ribadire. Quando si gioca dalla parte della politica, i referendum si subiscono e ci si difende con intelligenza, come fu nel caso di quello sulla “scala mobile”, non li si promuove!

Sono assolutamente consapevole che questa percezione potrà essere modificata poco o niente da quella minoranza – alla quale appartengo – che si è schierata per il Sì per non lasciare la bandiera del cambiamento nelle mani dei pentastellati, individuando in tale intervento riformatore il possibile inizio di un percorso virtuoso. Ed è proprio per questo che mi chiedo: non sarebbe stato meglio – molto meglio – lasciare che quel “taglio” si compisse come riforma compiutamente parlamentare alla quale, magari, far seguire in Parlamento altre iniziative – anche di natura costituzionale – per indirizzarne la portata e trasformarlo così nell’innesco di qualcosa di costruttivo?

Oggi, con in mezzo un match popolare tra politica e anti-politica, questo percorso è oggettivamente più difficile ma non impossibile, ed è per questo che ci si deve provare. Se il Sì dovesse prevalere – a quanto pare è probabile – si dovranno infatti obbligatoriamente attivare alcune riforme per rendere la riduzione di deputati e senatori compatibile col concerto del nostro sistema istituzionale: si dovranno modificare i regolamenti parlamentari (il Senato, in particolare, non potrà funzionare come funziona oggi con solo 200 membri), si dovrà cambiare la legge elettorale, fosse solo per adeguare gli attuali collegi ai nuovi numeri. Altre riforme sono invece “volontarie” e, se ben congegnate, potrebbero divenire il terreno per dare tutt’altro senso al “taglio” operato e costringere in un angolo i 5 Stelle che l’hanno cavalcato con argomentazioni tutt’altro che riformiste. Bisogna, però, volerlo.

Di queste “riforme possibili” ne indichiamo tre.

La prima, in realtà, è già in itinere e consiste nello sganciare la rappresentanza degli eletti al Senato dal contesto regionale oggi imposto dall’attuale articolo 57 della Costituzione. In tal modo sarà possibile avere una distribuzione dei seggi sul territorio nazionale più omogenea, evitando iniquità e sotto-rappresentazioni di alcuni territori.

La seconda riguarda proprio la legge elettorale. E’ in atto un tentativo di trasformarla in senso totalmente proporzionale, mantenendo ovviamente le liste bloccate. E l’iniziativa, manco a dirlo, è portata avanti proprio da quelli che si riempiono la bocca con la rappresentatività dei territori ma poi tacciono il fatto che l’unica garanzia di rappresentanza è una legge fondata sui collegi che esalti tra l’altro il voto utile e spinga il sistema verso un rinnovato bipolarismo. Bisognerebbe resistere e contrattaccare.

Infine, la riforma più ambiziosa: quella del bicameralismo. Con 600 parlamentari in luogo degli attuali quasi 1000 diventa possibile dotarsi di un bicameralismo a geometria variabile. Un sistema nel quale molte attività si svolgono in seduta comune (compresa la fiducia ai governi che, tra l’altro, renderebbe praticabile l’istituto della sfiducia costruttiva), senza per questo rinunciare alla possibilità della doppia lettura legislativa quando questa possa servire per correggere errori o migliorare il prodotto normativo.

Chi scrive è testimone di quanto l’ultima ondata di antipolitica sia stata anche il frutto avvelenato di una concezione strumentale delle nostre istituzioni che, negli ultimi tempi, ha portato alcuni detentori del potere politico a giocare con le riforme istituzionali (comprese le leggi elettorali) considerandole come un mezzo e come mera sovrastruttura. Oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che si è trattato di un errore sul quale i “pentastellati” hanno lucrato.

Da questo sbaglio c’è ora l’occasione di emendarsi. Se il referendum dovesse finire come da pronostico, quanti hanno sostenuto il Sì non inseguendo immaginari risparmi ma con motivazioni riformiste, dovrebbero ritrovarsi subito su un programma di ulteriori interventi che consideri il taglio non una presa della Bastiglia ma l’innesco per modernizzare un Parlamento che oggi funziona molto male. Sarebbe il modo migliore per dimostrarsi forze mature pronte per il governo del Paese e dar prova di aver imparato a maneggiare la politica come una risorsa e non solo come materia per la propaganda.