“This must be the place” è un film troppo umanista per piacere alla critica

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“This must be the place” è un film troppo umanista per piacere alla critica

23 Ottobre 2011

Il cinema italiano ha trovato in Paolo Sorrentino una delle migliori espressioni. Il suo “This Must Be the Place” è un’opera densa, matura, moralmente complessa, ma davvero molto, molto poco italiana. Forse è un bene, poiché immergendosi in una realtà estranea, ha potuto così saltare senza indugi i limiti e la sterilità del cinema italiano (ed europeo) d’autore. Sterilità soprattutto etica.

Di cosa parla “This Must Be the Place”? Parla di Cheyenne. Ha cinquant’anni, è americano, sposato, abita in Irlanda con la moglie dal mestiere decisamente strano: pompiere. Da trent’anni la ama. Vivono nel lusso, anche ne non ne hanno bisogno. Cheyenne, un tempo, è stato una rockstar. Successo, soldi. Tanti soldi, che gli permettono ancora di navigare comodamente senza far nulla. E fans scatenati. Lo consideravano un dio, un modello, una via da imboccare nei momenti bui dell’esistenza. Un paio di loro, giovanissimi, lo hanno preso troppo sul serio, e adesso riposano nella tomba al cimitero. Cheyenne, però, era solo un cantante, con troppi vizi, troppi problemi e privo di spina dorsale. Quando lo ha capito ha smesso di cantare. Da vent’anni galleggia sulla costante linea di confine tra noia e depressione. Per camminare si deve sempre aggrappare a qualcosa: al carrello della spesa, alla valigia con le ruote. Da solo non si regge. Ora beve, ma analcolici. Bibite colorate che succhia avidamente con la cannuccia nella bottiglia. Ha deciso di eclissarsi dal mondo Cheyenne. Ma non è riuscito a depurarsi dalla maschera indossata come una seconda pelle. La maschera di star del rock lo segue e lo perseguita. Ancora si ostina ad avere capelli nerissimi cotonati, labbra rosse di lucido rossetto, trucco sul viso e sopra gli occhi, unghie laccate, abiti attillati in stile gotico. Così conciato spaventa le clienti al supermercato, quando se lo trovano improvvisamente davanti (e lui ferito le ricambia bucandogli la busta del latte).

Per uscire da una vita vuota, ripetitiva, priva di senso, Cheyenne avrebbe bisogno di una scossa. E, improvvisa quanto puntuale, arriva. Muore il padre. Cheyenne è nato a New York, figlio di un ebreo deportato in campo di concentramento. Non vedeva il genitore da anni. Lo aveva quasi dimenticato. Un giorno, da bambino, aveva deciso che il padre non gli voleva bene. E di quell’intuizione dolorosa ne è ancora persuaso. Ma il figlio deve recarsi a vedere il genitore sul letto di morte. La fine del padre rappresenta per il figlio l’inizio di un lungo percorso. Nella memoria, dentro se stesso e nella terra americana. Per far viaggiare un sedentario come Cheyenne c’è bisogno di una motivazione potente. Il padre era vissuto con un’ossessione: trovare un soldato tedesco che lo aveva umiliato in campo di concentramento. Aveva scoperto che si era rifugiato in America, o lo aveva braccato sino alla morte. Ecco: adesso il figlio può ricongiungersi al padre, può sedare la rabbia nascosta, può chiudere davvero i conti con il passato. Si mette in cammino Cheyenne. E trova, finalmente, il derelitto che ha umiliato il padre. Si nasconde in una baracca nel deserto. È solo, vecchio, indifeso, quasi non vede più. Macilento, scheletrico, un morto che cammina. Somiglia tanto alle povere vittime, vecchie e denudate, accasciate nella morte sulla neve nei campi di sterminio. Le vendetta è a portata di mano. Basta premere il grilletto. Ma per Cheyenne è sufficiente l’umiliazione inflitta a colui che umiliò il padre. La vendetta violenta non avrebbe senso, poiché ormai la morte è già sulle spalle del vecchio aguzzino tedesco. Il viaggio è finito. Adesso può iniziare il percorso di ritorno a casa.

Nell’ultima immagine Cheyenne non ha più capelli lunghi e rossetto sulle labbra. È un uomo come gli altri. È diventato se stesso. Dal cuore l’odio è fuoriuscito e finalmente sorride. “This Must Be the Place” (questo dovrebbe essere il posto) è il titolo di una canzone dei Talking Heads. Il leader della band, David Byrne, compare nel film. Vestito di bianco, canta per un pubblico allegro ed estasiato, fra cui c’è anche Cheyenne. Lui è l’anima nera, l’angelo caduto, il divo senza cuore: Byrne è l’artista vero, l’immagine candida, quello che Cheyenne avrebbe voluto essere ma non è stato. Sean Penn, attore sempre più grande e versatile e geniale, è il film. Senza di lui sarebbe stato davvero difficile dare la giusta credibilità umana e morale ad un personaggio in apparenza così fastidioso.

Cheyenne è una contraddizione: a tutti i costi vuole mantenere in vita l’immagine di un tempo, ma quando lo fermano per strada e gli chiedono se è proprio lui, nega. Solo al vederlo apparire ti viene da pensare che sia insopportabile, per poi scoprirne, quando si esprime lentamente con vocina falsa ed effemina, garbo, gentilezza, generosità, umorismo.

A molti interpreti, nazionali e soprattutto internazionali, “This Must Be the Place” è piaciuto poco e niente. Il film di Paolo Sorrentino ha suscitato perplessità poiché non materializza il vuoto, come ad esempio Johnny Marco (una sorta di Cheyenne da giovane e al vertice del successo), protagonista di “Somewhere” di Sofia Coppola. Finale in filosofia del nulla all’Antonioni: un uomo che cammina nel deserto senza meta. Oppure esprime l’ambiguità spirituale (espressa sempre nel volto di Sean Penn) nel finale di “The Tree of Life” di Terrence Malick. Cheyenne è un uomo tormentato che alla fine fa pace con se stesso. Poteva scendere nell’abisso, invece è risalito. In apertura vediamo la maschera. In chiusura l’uomo. L’umanesimo ha sconfitto la disumanizzazione.