Tocca a Pd e Forza Italia sciogliere i nodi della riforma elettorale
24 Luglio 2007
Quattro nodi politici per una riforma.
I sistemi elettorali non sono delle
ideologie e nemmeno dei totem. Sono strumenti empirici e approssimativi che
vanno adattati a situazioni contingenti e, soprattutto, agli obbiettivi che
s’intendono perseguire. Per questo, se si continua ad affrontare il problema
della riforma dell’attuale legge elettorale dalla parte dei “modelli” – della
serie, è più “nobile” il tedesco, lo spagnolo o il francese – si ottiene
l’unico risultato certo di trasferire il dibattito nella terra degli iniziati,
amplificando tra il grande pubblico l’illusione che possa esistere il sistema
elettorale ideale che, come per magia e in un colpo solo, risolva tutti gli annosi
problemi del sistema politico italiano.
Per onestà intellettuale, e per
cercare di spiegare ai lettori cosa sta accadendo, provo qui a privilegiare un
approccio differente, partendo dai dati di fatto. In tal senso, debbo subito
ammettere che, a dispetto delle continue critiche che le gli piovono addosso,
nel suo nocciolo duro l’attuale legge elettorale non è una “porcheria”. Essa,
fino a prova contraria, ha garantito a una coalizione di governare il Paese pur
se vincitrice con soli 24.000 voti di scarto. La verità è sotto gli occhi di
tutti: questo governo è in crisi continua non per colpa della legge elettorale,
ma per la sua propria inconsistenza politica. Se, però, la situazione è questa,
per quale diavolo di motivo si ritiene
la riforma elettorale così urgente? E perché mai essa è divenuta il perno
intorno al quale ruota tutto il dibattito politico?
Da quando le ultime elezioni si sono
celebrate quindici mesi fa si sono verificate quattro nuove situazioni che spiegano
questa centralità. Di seguito le passo in rassegna succintamente:
1) E’ nato il partito democratico. Si
è trattato di parto travagliato ma, alla fine, il bambino è venuto fuori:
brutto, rachitico, con un’anima incerta ma pur sempre una creatura. Con il
tempo, è destinato a crescere ed esigerà il suo spazio provando ad allargare
verso il centro il territorio della famiglia d’origine.
2) La nascita del Pd, tra l’altro, ha
provocato una serie di scissioni a sinistra: alcune palesi altre ancora
carsiche. Anche per queste diaspore, l’anti-berlusconismo, da solo, non è più
in grado di tenere insieme la coalizione che ha vinto le elezioni. Per ora
soccorre la paura dell’abisso. Ma resta il fatto che la sinistra, così com’è
ridotta oggi, non è in grado di presentarsi in un unico fronte al cospetto
degli elettori.
3) La terza situazione inedita è, in
realtà, una pervicace resistenza. Si, proprio così: alla vigilia delle ultime
elezioni, infatti, molti tra avversari e alleati avevano scommesso sulla fine
politica di Berlusconi. Alcuni avevano persino scritto il necrologio firmando
il fondo del giornale da loro diretto. Invece, è bastato un anno di governo
della sinistra per rilanciare il carisma di Berlusconi, anche oltre i territori
della sua parte politica. E, ancor più, per offrire al suo partito, Forza Italia, l’opportunità di radicarsi
come mai prima: il 27, 4% alle elezioni amministrative, oltre 400.000 iscritti,
circa 2000 congressi comunali celebrati, scuole di formazione in tuta Italia
per la generazione più giovane.
4) Infine, l’evenienza è la più
recente. Su questa legge elettorale da qualche giorno pende la minaccia del
referendum abrogativo, che ha ora anche ufficialmente superato il quorum delle
500.000 firme. L’iniziativa, di per sé, non è esaltante. L’esito che si
propone, infatti, (ridurre la frammentazione partitica) è facilmente aggirabile
senza una conseguente modifica dei regolamenti parlamentari. Si tratta,
tuttavia, d’iniziativa legittima il cui significato politico di fondo è condivisibile:
evitare che il bipolarismo conquistato nel 1994 possa andare definitivamente
disperso, con un ritorno al tempo nel quale a fare i governi non erano i
cittadini ma gli accordi tra i partiti.
Quale bipolarismo?
Ma di quale bipolarismo si sta
parlando? I nostalgici dell’antico regime da tempo pongono polemicamente questo
interrogativo. Il fatto è che, da un po’ di tempo, il quesito si sta insinuando
anche nella testa e nei cuori di quanti, invece, al bipolarismo avevano veramente
creduto. Ve ne è ben donde. Ci si chiede, infatti, come possano continuare a
stare insieme, a sinistra, partiti che non solo si fanno una concorrenza
spietata, lucrando sulle reciproche disgrazie, ma che ormai hanno orizzonti
ideologici antagonisti. Senza poi parlare della convivenza forzata tra i
cosiddetti cattolici democratici e gli “zapateriani” nostrani: antitesi che
nemmeno i curiali equilibrismi di Rosy Bindi sono riusciti a sanare. A destra,
in confronto, lo scenario si presenta certamente meno mosso. Resta comunque il
fatto che gran parte del potenziale riformatore che si sarebbe potuto sprigionare
la scorsa legislatura è andato perso per il tentativo degli “alleati” di
costruire uno scenario che prescindesse da Berlusconi: da colui il quale più di
ogni altro era il detentore legittimo e riconosciuto della vittoria elettorale
dalla quale quell’esperienza di governo era scaturita. E nessuno, proprio
nessuno, può giurare che se si dovesse vincere di nuovo, non si ritornerebbe al
punto di partenza. Anche con Follini ormai dall’altra parte.
Di fronte a questo capolavoro d’astrattismo
è lecito domandarsi se non si possa trovare un sistema per rendere il sistema
meno ingessato, pur preservandone la curvatura bipolare. In termini più
semplici, c’è da chiedersi se la nascita del Partito Democratico da un canto e
il rafforzamento di Forza Italia dall’altro, non abbiano creato le condizioni
affinché vi siano, finalmente, due grandi forze di centro-sinistra e di
centro-destra normalmente antagoniste e veicolo d’integrazione per gli altri
partiti più estremi, presenti nei rispettivi schieramenti. Ma pronte,
all’occorrenza, ad allearsi tra loro nel caso di grandi emergenze nazionali o
anche quando il prezzo richiesto dagli alleati “estremisti” diventi troppo
alto.
La
domanda più che legittima è doverosa. Quel che ho descritto, infatti, è lo
schema di funzionamento di ogni sistema bipolare maturo: quello del quale ci
parlarono nei loro classici Johann Caspar Bluntschli e Walter Bagehot. Esso, in
quanto radicato nella coscienza del Paese, non dovrebbe aver bisogno di
correzioni ortopediche date dai premi di maggioranza o di altre astrusità
inventate dagli ingegneri istituzionali. Al centro, in quel tipo di bipolarismo,
rimangono gli elettori moderati i quali, a seconda delle circostanze e dei
programmi, decidono quale dei due schieramenti premiare. E le differenti
identità politiche sono comunque rispettate, a condizione di superare una certa
soglia di consenso.
Andare oltre l’italo-tedesco.
A questo punto, però, va evitata
l’ingenuità libresca, che in politica è colpa delle più gravi. Urge, per
questo, un’altra domanda: tale bipolarismo ideale può essere garantito, qui e
subito, da quel sistema convenzionalmente detto “tedesco”, ovvero da un sistema
proporzionale con sbarramento al 5%?
Io credo che in Italia un’unica ragione
osti a dare al quesito risposta affermativa. Ed è la presenza di una potenziale
forza di centro – l’Udc di Casini, transfughi della Margherita, pezzottiani
arrembanti – che per vocazione e
sensibilità è portata a evadere lo schema bipolare, che è invece ormai radicato
nella coscienza popolare. Questa presenza, anche al di là delle intenzioni dei
suoi stessi interpreti principali, potrebbe rivelarsi sufficiente a trasformare
la ricerca di un miglior bipolarismo nella fine di ogni bipolarismo. Nella
deriva che si verrebbe a creare, infatti, rivivrebbero le rendite di posizione
di un tempo, i veti ad personam,
persino i governi balneari ed altro ancora. Lo scettro verrebbe così sottratto
dalle mani dei cittadini anche per quella parte che essi ancora posseggono. E
la casta diverrebbe qualcosa di più consistente di un fortunato pamphlet qualunquistico
sull’illegittimità del potere politico.
Sia chiaro: io non sto ponendo un
problema moralistico, ma un problema politico che esige una risposta politica.
Essa potrà giungere attraverso l’evoluzione dell’attuale quadro partitico o,
più facilmente, attraverso la ricerca di un sistema elettorale che, insieme,
conceda più elasticità al sistema e renda, al contempo, meno gloriose le sorti
della restaurazione centrista. A cercar bene in giro se ne trovano.
La ricerca dovrebbe essere condotta,
insieme, dalle due forze egemoni, rispettivamente nel centro-destra e nel
centro-sinistra, a suggello della loro autorità sui rispettivi schieramenti e
di quella reciproca legittimazione che è condizione necessaria (anche se non
sufficiente) affinché la nascita di un bipolarismo non divenga lo strumento per
ammazzare il bipolarismo che c’è.
Se non vi sarà forza e fantasia per
percorrere insieme questo pezzo di strada – altro che i tre emendamenti dei
quali parla il Ministro Chiti! – mi permetto di avanzare un consiglio finale a
Forza Italia: si arrocchi sulla correzione dell’attuale legge elettorale e, se
rifiutata, vada avanti fino al referendum. Con onestà, affermi che esso non è
una soluzione ma non ne abbia paura. Di fronte alla prospettiva di smarrire
l’anima, meglio attrezzarsi a seguire, nostro malgrado e come meglio si può, i
percorsi contorti che la storia ci propone.