Togliamoli pure dal Pantheon ma non neghiamo ai Savoia gli onori reali
19 Novembre 2010
Nel secondo dopoguerra, com’era prevedibile, il problema delle tombe reali non venne posto: si aveva ben altro a cui pensare e, inoltre, i governi DC non osavano sfidare un elettorato ‘moderato’ che, nel referendum del 1946, aveva fatto sì che la repubblica prevalesse soltanto di stretta misura sulla monarchia. Oggi, però, in tempo di leghe, di revisionismo storiografico, di rimessa in questione del Risorgimento e di stanche celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia, ben poco sentite dall’opinione pubblica, si potrebbe riaprire il discorso, che riguarda sia la storiografia che l’etica pubblica, al fine di chiarirci le idee e di decidere quale peso e significato dare al nostro passato storico e ai suoi simboli. Vogliamo fare ‘tabula rasa’ come propongono leghisti, neoborbonici, veterosinistri rimasti legati all’interpretazione demonizzante della conquista regia e del saccheggio del Sud? In tal caso, per essere conseguenti, dovremmo sloggiare i sovrani non solo dal Pantheon ma da ogni altro monumento o chiesa della capitale o di qualsiasi altra città italiana. Vogliamo, al contrario, minimizzare il trapasso dalla monarchia alla repubblica e considerare la seconda come l’erede casuale e improvvisata della prima, nel segno di una continuità che, al limite, nelle ricorrenze civili, dovrebbe indurre le autorità civili e religiose a depositare fiori e corone sia sulla tomba di Umberto I che su quella di Einaudi? Nel secondo caso, coerenza vorrebbe che si lasciasse inalterato il Pantheon e che alle grandi cerimonie civili—sfilate militari, omaggio al Milite Ignoto etc.—partecipassero anche Vittorio Emanuele IV, Emanuele Filiberto, Amedeo d’Aosta etc. Due vie, come si vede, impraticabili, l’una—più realistica– per il suo giacobinismo fuori stagione, l’altra—assai improbabile– per il suo buonismo mieloso e corruttore (delle coscienze).
Forse si potrebbe pensare a una soluzione dettata non dal ‘compromesso’—quando si ha a che fare con i Valori il ‘bargaining’ va messo alla porta– ma da una ‘humanitas’ che da noi ha (dovrebbe avere) radici antiche. Con buona pace dei monarchici e delle Guardie d‘onore (oggi, francamente, un po’ ridicole con i loro mantelli istoriati ), si potrebbero rimuovere i monumenti sepolcrali dal Pantheon dove, peraltro, rendono tetro e cupamente barocco uno spazio luminosamente pagano. Vittorio Emanuele II, come s’è detto, potrebbe essere sepolto sotto il suo monumento equestre, davanti all’Altare della patria, e i suoi discendenti portati a Superga (con Umberto II, ora tumulato ad Haute Combe) o nella chiesa romana del Santissimo Sudario, nel rione Sant’Eustachio, divenuta dopo il 1870 una sorta di cappella privata dei Savoia. Le salme reali, in tal modo, troverebbero una collocazione che forse, se potessero guardarci dall’al di là, gli stessi Savoia troverebbero equa e soddisfacente: lontane dagli sguardi di frettolosi turisti ma pur sempre ‘sistemate’ non nei cimiteri destinati ai comuni mortali ma in chiese disposte a ospitare per l’’eterno riposo’, quanti, laici o religiosi, statisti o cardinali, artisti o scienziati, hanno contribuito a scrivere la storia d’Italia. In tal modo, le anime dei nostri regnanti potrebbero veder riconosciuto il loro elevato rango terreno ma non cancellate le luci e le ombre che accompagnarono il loro passaggio su questa terra (il ‘re buono’, Umberto I e la sua reazionaria consorte Margherita hanno molto da farsi perdonare anche se l’Italia dei loro anni non fu il paese arretrato che ci descrive una storiografia di parte ma registrò non pochi progressi in svariati campi) Quelle ombre oggi non consentono, anche a prescindere dalla forma di Stato repubblicana faticosamente uscita dal referendum del 1946, di riservare ad essi le stesse celebrazioni e gli stessi monumenti eretti a Mazzini, a Cavour, a Garibaldi.
D’altra parte, però, anche i pasdaran repubblicani debbono rassegnarsi a dismettere i loro vecchi abiti faziosi. I Savoia fanno parte della storia d’Italia e se a ragione persero il trono nel 1946 altrettanto giustamente se lo guadagnarono nel 1861. Abbiamo citato i riconoscimenti di Garibaldi. Ebbene il generale scriveva, nei suoi romanzi mediocri ma che ne rispecchiavano fedelmente il pensiero politico,<che la Monarchia per interesse proprio abbia secondato le aspirazioni nazionali nell’unificazione patria credo assurdo il negarlo, siccome assurdo sarebbe il negare aver la Democrazia seminato i campi di battaglia coi suoi martiri nell’intento solo generoso dell’unificazione dell’Italia e della sua emancipazione dal dominio straniero e teocratico.>(I Mille). E ancora :<Alla dinastia sabauda, senza dimettermi dei miei convincimenti repubblicani, l’Italia deve due fatti. Il primo è l’organizzazione d’un esercito che, ben guidato, varrà sempre qualunque altro esercito a parità di numero. Il secondo che, identificando l’unità nazionale coll’ambizione dinastica, l’indipendenza patria ha potuto attuarsi più presto e più facilmente> (Manlio). E’ vero che il generale aggiungeva, col cuore gonfio di delusione, <ma se tale dinastia avesse avuto un uomo di genio a capo, essa poteva certo, consolidarsi indefinitamente al reggimento del paese. Non fu così ; per sventura massime della patria nostra, la dinastia ingannando le speranze della nazione, ha bensì contribuito all’unità nazionale ma ha fatto delle popolazioni infelici colla sciagurata sua mania da Medio-Evo>. E tuttavia la doccia fredda degli anni della ‘ricostruzione della nazione’, dopo le ‘grandi speranze’ suscitate dalla proclamazione del Regno d’Italia non deve far dimenticare quanto—e non era certo poco—Garibaldi era disposto a concedere al suo regale interlocutore, a differenza delle odierne vestali del repubblicanesimo per le quali nulla si salva dell’operato dei Savoia giacché, si sostiene, le trasformazioni positive che si registrano nell’ epoca in cui rimasero sul trono non erano dovute a loro ma unicamente al lavoro degli italiani e all’inarrestabile avanzata del progresso mentre delle tragedie che vi si verificarono erano da ritenersi i principali, se non gli unici, responsabili (v. la superficiale e irritante saggistica di Lorenzo Del Boca).
La ‘vulgata repubblicana’, anche quando è sottoscritta da eminenti cattedratici, sta sullo stesso piano della ‘vulgata antifascista’ denunciata a ragione da Renzo De Felice. Ed entrambe testimoniano una società terroristica e intollerante, incapace di analisi equilibrate e di quella superiore indulgenza nei confronti degli errori umani che nasce da una visione scettica e disincantata, ma tutt’altro che cinica, della storia di ieri e di oggi.
C’è, a ben riflettere, nella vulgata, in ogni vulgata, un inguaribile esprit totalitarie: si vuole che una certa immagine (negativa) del passato divenga un ‘riflesso condizionato’ della mente e del cuore dell’uomo della strada , che le considerazioni ideologiche cancellino ogni istinto umano e generoso. Vittorio Emanuele III non ha fatto rispettare lo ‘Statuto’, com’era suo dovere, ha finto che la Camera di Mussolini fosse un normale ramo legislativo con potere di emanare norme che il Re non poteva non firmare e, pertanto, tali colpe non lo rendono degno della sepoltura in Italia. Quanti, vecchi e men vecchi, desidererebbero rendere omaggio alla sua tomba, ricordando le benemerenze di casa Savoia e dello stesso ‘Re Soldato’o, più semplicemente, ricordando l’amore per la dinastia nutrito da padri e nonni, non possono farlo, né a Roma, né a Torino, né in altro luogo. A porre il veto a ogni forma di ‘pietas’, prima ancora che i combattenti in spe della guerra civile ‘che continua’, permeati di spirito azionista, sono ‘tipi umani’eterni, che, al posto del prode Achille, non avrebbero mai restituito a Priamo la salma di Ettore e, al posto di Creonte non avrebbero permesso ad Antigone la pietosa sepoltura dei fratelli Eteocle e Polinice, nati dal mal seme di Edipo.
A questo punto si potrebbe pensare che le monarchie costituzionali siano più moderate delle repubbliche faziose. L’Italia sabauda non si oppose all’erezione di centinaia e centinaia di monumenti al nemico Mazzini e al non più amico Garibaldi e un mezzo secolo prima Luigi Filippo aveva approvato la traslazione del corpo dell’usurpatore, Napoleone Bonaparte, morto a Sant’Elena, all’Hotel des Invalides. La memoria storica è troppo divisa per consigliare alla Repubblica italiana la politica del beau geste e, per le ragioni etiche e politiche ricordate, io stesso sarei contrario. Rendiamo omaggio, com’è doveroso, a Vittorio Emanuele II ma consegniamo alla storia e non ai riti civili i suoi eredi. Ci si accontenti di non cancellare i loro nomi dalle strade e dalle piazze ad essi intestate come vorrebbe un republicanism fazioso e intollerante. Nel bene e nel male dovremmo abituarci a considerare quanto ci viene dal passato come costitutivo della nostra identità e a riguardare lo stesso processo di liberazione dai vincoli della tradizione come condizionato, nelle fini e nelle modalità che esso viene ad assumere, dalle forze operanti in quella stessa tradizione.
Ma dovremmo soprattutto prendere in considerazione il fatto che il mutamento di una forma di Stato (quando non si tratti di abbattere una dittatura) non è un evento da salutare con gioia. Il passaggio, nel 1946, dalla Monarchia alla Repubblica (al quale io stesso, peraltro, avrei contributo col mio voto se fossi stato elettore) fu un trauma lacerante per il paese: evidenziò una frattura insanabile e tale, forse, rimasta ancora oggi, sia pure con attori politici e segni ideologici diversi. Nata grazie all’iniziativa di una dinastia tentata più dal modello prussiano che all’inglese—v. l’eccellente saggio di Federico Anghelé, Il modello tedesco per la classe politica italiana (1866-1890) di imminente pubblicazione– l’Italia avrebbe tratto un maggiore vantaggio dalla trasformazione della monarchia semi-costituzionale sabauda in una monarchia di tipo scandinavo che non dall’instaurazione di una Repubblica che, nel timore di tentazioni giacobine (e azioniste), dovette venire affidata a due elettori che, nel referendum, non avevano voluto tradire il loro re, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.
La storia, ammoniva il ricordato don Benedetto, non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’. Abbiamo la Repubblica e teniamocela. Che sia, però, una Repubblica non vendicativa e consapevole che la mancanza di generosità verso i nemici sconfitti non rivela la sua forza ma la sua debolezza. Se dovessimo temere il potenziale sovversivo rappresentato dagli autobus dei nostalgici in pellegrinaggio a Superga–per rendere omaggio alla salma di Umberto II, tornato in patria per l’ultima, definitiva, dimora–significherebbe che, oltreché un popolo di faziosi, <l’Itala gente dalle molte vite> sta diventando un popolo che ha perduto irreparabilmente <il ben dell’intelletto>.