Torna la meritocrazia nella scuola. E la laurea breve è al tramonto

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Torna la meritocrazia nella scuola. E la laurea breve è al tramonto

18 Giugno 2008

Va apprezzato il coraggio del ministro Gelmini di aver rimesso in circolazione la parola “merito”, impronunciabile da quando (decenni fa) “meritocrazia” è stata eletta a sinonimo di tutti i mali del mondo. È tanto più apprezzabile che, dopo averne fatto un riferimento centrale per la scuola secondaria, l’abbia accostata ad “autonomia” e “valutazione” per comporre la triade cui vuole ispirare la sua azione nell’ambito universitario. Ha fatto anche bene a enunciare chiaramente il dilemma: tornare a un sistema centralizzato o scommettere sull’autonomia.

Convince la scommessa sull’autonomia che però richiede la valutazione, la quale deve fondarsi sulla promozione del merito, nella sostanza e non per obbedienza a parametri formali. Se l’idea dell’autonomia convince per l’università – mentre è da considerare con molta maggiore cautela per gli istituti scolastici – occorre tuttavia ripensarla perché è stata sperimentata e siamo in condizione di dire quali rischi vadano evitati. Difatti, la falsa autonomia introdotta nell’università ha stimolato cattivi risultati, come la proliferazione di migliaia di lauree, e non ha prodotto i risultati sperati, come la promozione della qualità della ricerca e della didattica. Le università, impossibilitate ad agire in vera autonomia – per esempio sul fronte delle tasse – hanno esaurito (non senza colpe) la quota di bilancio dedicata agli stipendi. Ne è risultato un effetto drammatico: non vi è più mobilità tra le università, il corpo docente è ingessato in forme mai viste ai tempi del più rigido centralismo e le conseguenze negative sulla qualità della ricerca e della didattica sono gravissime.

Le modalità di reclutamento dei docenti proposte dal ministro – chiamata diretta su una lista nazionale di idonei – ci convincono pienamente e saranno tanto più efficaci quanto più le università saranno messe in condizione di promuovere la mobilità del corpo docente, ma anche stimolate e quasi costrette a farlo. 

Un altro problema sottolineato dal ministro sono i pessimi risultati del sistema 3+2 (laurea triennale e specialistica). Tutti riconoscono che le lauree triennali non servono a niente e tanto varrebbe tornare alla vecchia normativa. Quantomeno occorrerebbe por mano a una semplificazione estrema del sistema dei crediti – Salvatore Settis ha addirittura proposto di abolirlo con una circolare – che è fonte di uno squallido mercato. Per esempio, occorrerebbe vietare l’idea aberrante di misurare un credito con le pagine di testo da studiare (pagine di quanti caratteri e di che difficoltà?!). Quando poi certe commissioni di valutazione di ateneo addirittura invitano i docenti a stimare un credito come un impegno di 25 ore di studio ci si rende conto del degrado culturale cui siamo arrivati e della metastasi manageriale dell’egualitarismo di stampo sessantottino. Esiste infatti una categoria di professori che preferiscono dimenticare di essere tali e giocare a fare i manager con un’attrazione quasi erotica per la “governance” e la “valutazione” quanto più sono formali e complicate. 

Non può darsi autonomia senza valutazione, ma anche la valutazione deve essere seria e non ridursi agli esercizi formali di certe commissioni o alla burofrenia di carrozzoni autoreferenziali. Bisogna rifuggire dall’ossessione della valutazione “oggettiva” e “automatica” che sfocia inevitabilmente nella proposta di criteri assurdi e arbitrari, come quello letto di recente: attribuire un valore 20 a un libro pubblicato “all’estero” e 12 a un libro pubblicato in Italia. Quel che conta è il valore intrinseco del libro o dell’articolo e neppure della rivista in cui è stato pubblicato. Con certi criteri da “citation index” articoli epocali di grandi scienziati sarebbero oggi valutati poco in quanto pubblicati su riviste di secondo piano. L’unica valutazione seria è di contenuto e deve essere svolta da commissioni imparziali che ispezionino sul campo. Circa la valutazione degli studenti e delle famiglie, eviterei da parte del ministro di definirla in termini di “customer satisfaction”, termine che non andrebbe usato nell’ambito dell’istruzione. 

Infine, così come il ministro ha ricordato l’importanza per la scuola della quarta “i”, l’italiano, siamo certi che sarà sensibile al ruolo motore della ricerca di base e alla necessità di riportare al centro dell’università la cultura e il rapporto con le tradizioni culturali senza di che non si potrà evitare che la didattica si riduca a esamificio e la ricerca a produzione di brevetti.

© Libero

del 18 giugno 2008