“Tornare a Forza Italia si può ma l’Italia vive una fase più angosciosa di allora”
20 Settembre 2013
Giuliano Urbani, tra gli ideologi e fondatori della prima Forza Italia, più volte parlamentare e ministro nei governi presieduti dal Cavaliere, torna con la memoria al 1994, quando l’imprenditore Silvio Berlusconi si rivelò assai più coraggioso di tanti politici di professione. «Avevamo la speranza e la determinazione di cambiare il mondo, e certamente seminammo molto». Purtroppo, confida al telefono con l’Occidentale, «raccogliemmo poco», e ciò può essere ascrivibile anche al tasso di conflittualità che in questo ventennio ha finito con il prevalere su ogni ipotesi di riconciliazione in nome della salvaguardia degli interessi nazionali. Nessuno si è in realtà emancipato dalle rispettive partigianerie, e in questo paese «in frantumi» vengono al pettine i nodi irrisolti: la certezza del diritto, la governabilità, il debito pubblico, le riforme istituzionali, la selezione della classe dirigente. Urbani guarda oggi con distacco alle cose della “politique politicienne”, ma la nuova discesa in campo del Cavaliere non può certo lasciarlo indifferente.
Professore, il tanto atteso videomessaggio di Silvio Berlusconi è arrivato: il Cavaliere rilancia Forza Italia, a suo giudizio l’ultima chiamata prima della catastrofe. Si tratta di un’operazione di marketing politico in chiave elettorale, oppure è possibile tornare oggi agli ideali del 1994?
«Tornare a quegli ideali è possibile, e direi anche necessario, perché viviamo un momento di assoluta penuria in termini di elaborazione. Mancano gli ideali come bussole di quel che si fa in politica; aggiungo che essi sono tuttora attuali anche perché non li abbiamo mai realizzati. Quindi ben venga la voglia di tornare ad allora, sapendo che si tratta di riproporre quelle idealità ma in un contesto profondamente cambiato, in tutti i sensi: oggi i problemi del nostro paese sono incredibilmente più angosciosi di vent’anni fa, basta solo guardare agli indicatori sociali».
Lei è stato tra i fondatori di Forza Italia. Quali erano gli orientamenti che ispiravano la vostra azione?
«L’orientamento di base, direi quasi una scommessa, era quello di cercare di costituire un movimento politico ispirato agli ideali del liberalismo politico in un paese in cui non c’era mai stato il tentativo di dar vita a un movimento liberale di massa, cioè aperto ai grandi numeri dell’elettorato italiano. A quell’epoca scrivevo per il Giornale di Montanelli, nei miei fondi c’era una diagnosi dei mali italiani ed una terapia con la quale proponevo di risolverli. Ho trovato in Berlusconi l’unico che ci ha creduto e che ci ha provato, impegnandosi in prima persona non certo per sé stesso, ma per il paese. All’inizio infatti non avevamo in mente un soggetto politico guidato da un imprenditore. Ma quei politici che pure condividevano le nostre impostazioni, e mi riferisco a Giuliano Amato, a Mario Segni, a Mino Martinazzoli, uno dopo l’altro dimostrarono scarso coraggio».
A vent’anni di distanza, qual è a suo giudizio il bilancio di quell’esperienza ? E quali sono, alla luce degli insegnamenti del passato, gli errori che la nuova Forza Italia 2.0 dovrebbe evitare?
«Seminammo molto, raccogliemmo purtroppo poco. Ben presto sopraggiunsero le necessità della vita parlamentare, in quanto i numeri che occorreva guadagnare tra gli elettori e poi naturalmente la stessa rappresentanza politica in Parlamento ci mancarono. Si dovette far ricorso alla coalizione con forze che liberali non erano: la Lega, la vecchia Alleanza nazionale, gli stessi ex democristiani; ma con il vecchio non puoi certo costruire il nuovo. In altri termini, a forza di mediazioni, abbiamo fatto le nozze con i fichi secchi. Oggi, per non incappare negli stessi errori del passato ed attuare le riforme liberali, sarebbe necessario un monocolore forzista. E francamente la vedo difficile».
In attesa di saperne di più su un assetto ancora da strutturare, restano agli atti le parole di quanti si dicono convinti che Forza Italia sarà un partito presidenziale con a capo Berlusconi, senza segretario o altri filtri tra il leader e il suo popolo. Cosa ne pensa?
«Penso che sia tutto radicalmente sbagliato. Senza addentrarmi nel discorso sulle ipotesi di futuri organigrammi, le lascio volentieri ai retroscenisti, credo che occorra dar vita a un movimento politico fortemente rappresentativo e anche molto aperto al dialogo costruttivo con le altre parti dell’elettorato, per la semplice ragione che in questo frangente è necessario fare forza comune per raggiungere gli interessi nazionali, la cui voce è assai flebile nel contesto europeo e internazionale in cui viviamo».
Sul berlusconismo è stato scritto di tutto e di più. Alcuni studiosi stanno tentando di uscire dalla logica delle passioni contrapposte, per dare al fenomeno una prospettiva storica. Giovanni Orsina, in un recente lavoro, mette in evidenza il fatto che Berlusconi abbia rotto uno schema consolidato, sintetizzabile nell’inclinazione della classe politica a svolgere una funzione pedagogica nei confronti della società.
«Io parto dal presupposto che non si può giudicare Berlusconi usando la lente giudiziaria. Detto questo, il successo del 1994 si deve essenzialmente al fatto che con Forza Italia demmo certezza di sostanza politica ad una domanda che era senza risposta in quel momento. Ci muoveva la forza di un sogno, la speranza e la determinazione di cambiare il mondo. Probabilmente, però, non abbiamo saputo dare al paese quel che il paese chiedeva. Invece di trovare un comun denominatore, elementi di coesione e dialogo, è prevalsa una logica di scontro e divisione, e ciò è avvenuto a tutto svantaggio dell’Italia».
Cosa rimprovera a Berlusconi?
«C’è una cosa che non riesco a perdonargli, e consiste nel fatto che non ha mai provato a pensare al futuro. Sia chiaro, non mi riferisco tanto al tema della sua successione politica, quanto piuttosto al futuro del paese. Mi dispiace ancora adesso muovergli questo rimprovero, perché poi mi rendo conto che Silvio Berlusconi è stato talmente martoriato da finire per perdere il respiro, la tranquillità, la pace ed anche l’atteggiamento costruttivo perché ogni volta che ha provato a mettercelo, vedi la vicenda della Bicamerale con D’Alema, gli hanno subito dato addosso in maniera tale da tradire e rendere difficile ogni sua apertura».
Il Popolo della libertà, storia di un fallimento, storia di un partito mai nato, o cos’altro?
«Storia di un fallimento, senza dubbio. Berlusconi non ha mai trovato gli alleati giusti per costruire una forza politica liberale. Oggi, purtroppo, il compito è reso molto più difficile perché occorre fare il miracolo di unire il paese intorno ai suoi interessi comuni. Tutti i problemi economico-finanziari che abbiamo con l’Europa non si risolvono col centrodestra o con il centrosinistra, ma con la forte consapevolezza che soltanto uno sforzo comune potrà rafforzare la nostra democrazia».
Professore, cosa farà Berlusconi nelle prossime ore o settimane?
«Oggi il mio amico Silvio è di fronte a problemi assai difficili. Non si tratta di dirimere contrasti politici o di destreggiarsi tra alleati inquieti e riottosi. No, in gioco c’è il suo stesso destino personale e trovo ingiusto dire agli altri cosa dovrebbero fare. Ma con tutta onestà, io uscirei da questo angolo politico-giurisdizionale per tornare alla condizione del cittadino comune».