Torti e ragioni dei laici
09 Febbraio 2008
I laici erano un tempo coloro i quali dinanzi alle verità rivelate, alle grandi tradizioni culturali, religiose, politiche, etc., alle decantate virtù taumaturgiche del progresso e delle scienze, rimanevano freddini e talora anche un po’ scettici. Si distinguevano, in questo, dai positivisti, più tardi detti anche scientisti, i quali credevano invece che la scienza avrebbe ridotto ogni problema umano; sia esistenziale sia sociale. Far tabula rasa col passato e con i suoi orpelli e riti, secondo il Manifesto del Circolo di Vienna, era condizione necessaria, anche se forse non ancora sufficiente, per dare vita ad un uomo nuovo in un mondo nuovo, ma entrambi felici perché liberati dal bisogno grazie alla ‘nuova economia’ e dalle insensatezze delle religioni e delle morali tradizionali.
Le cose, come noto, non sono andate proprio così; ma senza mettere più di tanto in discussione l’assunto che per il progresso della società, e per la sua ordinata convivenza, fosse opportuno, se non addirittura necessario, mettere una sorta di ‘laica mordacchia’ alla religione e soprattutto ai suoi esponenti.
Spirito di vendetta e di rivalsa si intrecciano così con la paura che le religioni avrebbero potuto ancora una volta porre ostacoli a quel progresso da cui ci si aspettava tanto. Da elemento costitutivo, nel bene e nel male, della civiltà occidentale, la religione cristiana rischia così di diventare elemento di perturbazione di un Occidente che si sogna felice e soddisfatto se finalmente liberato dai pericoli che per la convivenza civile e per lo sviluppo delle scienze possono pervenire da quell’interesse ‘eccessivo’ per la salvezza delle anime del quale, con esiti infausti, le chiese cristiane hanno purtroppo dato prova nei secoli passati.
Di qui, senza indugiare sulla legittimità dei risentimenti e sul pericolo che quell’eccessiva attenzione possa manifestarsi nuovamente, la domanda se una società possa fare a meno della religione o –il che è però pressoché lo stesso– se realisticamente possa confinarla in un recinto, fosse anche quello della coscienza individuale. In altre parole, se la politica o la scienza possano oggi porre dei limiti alla religione così come, nel passato, essa li aveva posti alla politica e alla scienza.
Riconosciuto anche che politicamente ha un senso chiedersi se, in osservanza a convinzioni o a tradizioni religiose, si debba porre un limite a certe tipologie di ricerca scientifica sapendo che altri non lo faranno e che questo avrà comunque delle conseguenze, l’idea di confinare la religione nella sfera privata e di porre limiti alla professione delle dottrine religiose presenta più di un motivo di problematicità. E questo, paradossalmente proprio in considerazione del fatto che se si esce da una dimensione cristiana, si incontrano anche parecchie difficoltà a stabilire se un insieme di credenze possa qualificarsi come religione. E del fatto che la ‘pericolosità’ attribuita da certi laici al cattolicesimo di Benedetto XVI è poca e comunque risibile cosa rispetto al pericolo rappresentato dalla diffusione delle idee di non poche di quelle centinaia di religioni definite e catalogate come tali dall’Onu.
Che una religione possa essere ‘pericolosa’ per la sopravvivenza di una società, o per definirla come ‘buona’ secondo certi canoni (operazione che farebbe tremare ogni ‘vero laico’ giacché significherebbe valutarla secondo princìpi universali ed eterni la cui esistenza egli cerca disperatamente da secoli arrivando sempre alla conclusione che al momento esiste soltanto un ‘meglio’ ma non un ‘bene’), non è in discussione e lo stesso può essere detto di molti insiemi di idee, credenze e pratiche di vita.
Pensare che una religione possa essere pericolosa per la società significa quindi immaginare che una società sia buona se ha certe caratteristiche che meritano o necessitano di essere protette. Il punto è che non è scontato, né pacifico, chi, in una democrazia, possa o debba assumere la funzione di definire tutto ciò e difendere la società dai pericoli che possono venirle dalla religione (e perché mai non anche dalla scienza e dagli scienziati così come dai musicisti rock, dai cineasti, degli psicoanalisti, dai creatori di moda, dagli ambientalisti, dai dietologi, dai filosofi, etc?; ovvero da tutte quelle categorie di persone che volontariamente vorrebbero farti del bene). E a rendere la questione curiosa è il fatto che chi invoca la figura ‘socialmente utile’ del protettore appare maggiormente ossessionato dalle minacce che proverrebbero dal Vaticano piuttosto che da quelle che provengono da altre religioni o sette.
Come che sia, se un tempo la chiesa cattolica si proponeva di difendere le anime delle sue indifese pecorelle dai pericoli a cui potevano essere esposte dalla frequentazione di ‘liberi pensatori’ (in genere eruditi, filosofi e scienziati), oggi di questa missione sembra volersi far carico qualcun altro.
Ma per quanto un liberale sia consapevole che la diffusione di certe idee possa avere effetti sociali indesiderati e nefasti, egli (anche se è diventato molto difficile accorgersene tempestivamente), se quelle idee non riguardano i diritti naturali (vita, libertà e proprietà) non pensa sia necessario ricorrere a tutors.
E così si giunge finalmente al dunque. L’’errore’ di molti laici, e di quelli che non perdono occasione per manifestare la propria intransigenza, è di non rendersi conto del fatto che oggi non viviamo più in società multiconfessionali, bensì in società multireligiose.
E questo fa la differenza anche perché molte di quelle religioni sono in realtà delle sette e delle ‘religioni fai da te’, e perché anche la stessa ‘laicità’ si configura ormai, e per molti, come una religione. Con tanto di fedi, dogmi, di adepti e di nemici.
D’altra parte, ad accrescere le difficoltà, è pure il fatto che si assiste alla prima esperienza della difficile convivenza tra ‘stato laico’, confessioni e religioni. Una difficoltà che si accentua tra le fasce sociali a basso reddito, costrette, a cause della scarsa mobilità, a convivere in aree geograficamente ristrette nelle quali i conflitti di abitudini che fanno riferimento a professioni religiose assumono anche i connotati del razzismo.
Tuttavia, e tutto sommato, all’origine della tensione tra religione e legislazione statale finalizzata alla regolazione delle conseguenze individuali e sociali dell’emergere delle novità, non son tanto (o finora) motivazioni sociali del tipo prima esposto, quanto questioni legate alla difficile soluzione e regolazione dei problemi etici posti dallo sviluppo scientifico. Questioni che pur avendo ampie ripercussioni sociali, finiscono per attirare una fascia ristretta della popolazione, o quanti, in generale, non si sentirebbero comunque di osservare nessun tipo di normativa: né quella proveniente dalla legislazione sociale, né quella proveniente dalla dottrina cattolica. Ma se i ‘fai da te’ tendono, generalmente, ad opporsi a tipologie normative diverse da quelle dell’autoproduzione, e da questo punto di vista, rappresentano, per certi versi, una sorta di degenerazione della morale kantiana, la gran parte dei membri delle società occidentali d’oggi resta indifferente, valuta in relazione a criteri di utilità soggettivamente intesi, rimane spaventata dalle paventate conseguenze.
Poiché la nostra tradizione del laicismo era stata tarata sulla convivenza, mai facile ma neanche traumatica, tra stato e religione cattolica, è del tutto ovvio che ora ci si trovi in serie difficoltà.
Per certi versi si assiste al verificarsi della profezia di Nietzsche; si vive il difficile momento in cui ci si rende conto che alla distruzione della metafisica cristiana non è seguita la nascita, o l’emergere, di nessuna nuova morale. Da questo punto di vista, anche il progetto dello scientismo è crollato e forse è inutile anche rovistarne le macerie alla ricerca (in osservanza dello ‘spirito del tempo’) di qualcosa di riciclabile.
Il fatto è che il laicismo tradizionale poteva contare sulla circostanza che i valori della società non erano molto diversi da quelli che davano forma alle scelte pubbliche. Che lo stato potesse legiferare ignorando completamente quelle che erano le credenze ed i valori religiosi diffusi nella società italiana, e da essa condivisi, era un’eventualità che tutto sommato, poteva essere riassorbita.
Da un po’ di tempo non è più così.
I valori della tradizione cristiana non sono più un limite invalicabile alla legislazione.
Non sto a dire se sia un bene o un male, mi limito ad osservare che per un complesso insieme di circostanze non è più così, e che questo impone di affrontare in termini diversi la relazione tra religione e ‘spazio pubblico’. A dire il vero non so esattamente cosa si intenda con ‘spazio pubblico’; ho il sospetto che si tratti di una di quelle tante parole che si siano introdotte non si sa per quale via nel nostro linguaggio e che lo abbiano in una certa misure reso ancor più confuso.
Anche per questo è meglio prendere le mosse da un altro punto di vista.
Storicamente, lo ‘stato liberale laico’ sorge dal desiderio e dalla necessità, avvertita da un numero allora abbastanza ristretto di pensatori che pensavano fosse necessario ‘inventare’ una forma istituzionale in grado di superare ‘il fallimento politico del cristianesimo’, di porre un limite alla distruttività dei conflitti interconfessionali, ed ha il proprio fondamento in una distinzione artificiale, storica e pragmatica tra sfera privata e sfera pubblica. C’è del vero quindi nella tesi secondo la quale la filosofia politica moderna nasce come una ‘critica della religione’.
Quella distinzione non fu allora (e per molti secoli) considerata positivamente dalla chiesa cattolica e, si pensi al caso della calvinista Ginevra, neanche dalle chiese protestanti. Essa, infatti, accanto alla riduzione della religione nella sfera privata, comportava anche che la sfera pubblica: la politica, si sarebbe dovuta occupare della produzione di un’insieme, secondo la tradizione liberale, abbastanza limitato di ‘beni pubblici’ tramite scelte collettive compiute su indicazione di un elettorato ristretto e, agli occhi d’oggi, decisamente omogeneo.
Ma quasi nessuno, neanche i laici più ‘oltranzisti’, pensavano che i valori che avrebbero dovuto ispirare le scelte pubbliche sarebbero stato antitetici a quelli della tradizione cristiana. La morale cristiana, e qui da noi cattolica, sopravviveva anche nei cuori dei laici. La contrapposizione al potere religioso, anche nella forma dell’anticlericalismo, non aveva prodotto una ‘morale laica’ antitetica a quella cristiana. E non la ha prodotta neanche ora.
Fratellanza, uguaglianza, giustizia sociale, solidarietà, rispetto della vita, etc., non erano e non sono, anche quando professati da socialisti atei, che valori cristiani secolarizzati. Si poteva discutere, anche animosamente, sui tempi e sugli strumenti con cui realizzarli, ma che una società dovesse averli a proprio fondamento non era in discussione. Non è certo un caso che su di essi la distanza tra tradizione cattolica e tradizione socialista era minore di quello che c’era tra cattolici e socialisti da una parte e liberali laici dall’altra. Questo fragile equilibrio si sgretola quando appare evidente che quella separazione non reggeva più per un insieme di motivi.
Anzitutto allorché, con la democrazia di massa viene in evidenza che lo stato, la politica, avevano il compito di realizzare le aspettative maggioritarie nella società. E queste o erano anche di carattere religioso, o risentivano delle credenze religiose. Si ha così il primo cedimento di quella distinzione tra sfera privata e sfera pubblica che il Cristianesimo, unica tra le religioni monoteiste, aveva, sia pure di malavoglia, consentito.
Si trattava di una rivincita di socialisti e cattolici nei confronti dei liberali e dello stato liberale il quale, fino all’ultimo, cercò di opporsi alla dilatazione delle scelte pubbliche, forse intuendo che tale dilatazione rappresentava la fine dello stato liberale laico fondato sia sulla distinzione tra pubblico e privato, sia sulla limitazione di quei beni pubblici che sarebbero dovuti essere prodotti dalla politica.
A questo punto, però, come se non bastasse, la scienza e la tecnologia ci hanno messo di fronte ad un gran numero di problemi, anche, o forse soprattutto, morali che da una parte facevano sì che quella distinzione tra pubblico e privato saltasse per via del fatto che nessuno sembrava in grado di dire quale fosse la casella in cui si inseriva la novità scientifica e sulla quale avrebbe riversato le sue attese o inattese conseguenze.
Ora il problema è chi debba stabilire se la regolazione delle conseguenze del ‘progresso delle scienze’ sia di competenza della politica, della religione o della società.
Di fatto la tradizionale distinzione tra sfera pubblica e sfera privata salta. Di fronte a questa circostanza, alcuni credono che ogni individuo possa fare e comportarsi come vuole, altri che lo stato sia il monopolista nel creare nuove regole che valgono per tutti, altri che la novità debba essere valutata e regolata alla luce dei valori religiosi tradizionali, altri ancora che ogni religione possa legittimamente esprimere un parere vincolante per i propri fedeli.
Ma se ogni stato occidentale nell’ambito del territorio in cui esercita la sovranità di religioni ne annovera ormai parecchie, il problema diventa tragico.
Verrebbe da dire che potrebbe regolare l’emergere delle novità e la loro diffusione e fruizione secondo criteri di carattere universale. Ma questo non soddisfa certo tutte le religioni. In questo caso molti fedeli dovrebbero obbedire a leggi dello stato che vanno contro le proprie fedi. In altri casi viene da chiedersi quanto costoro possono restare indifferenti di fronte al ‘male’. In altri casi ancora le leggi dello stato potrebbero impedire comportamenti che sono legittimi per la religione in cui si crede. Ed infine, ci si può chiedere dall’osservanza di quali leggi si può essere esentati per motivazioni religiose. Proviamo ad immaginare quale potrebbe essere la capacità di diffusione di una religione che rispettasse le caratteristiche richieste dall’Onu, ma vietasse ai propri adepti di pagare le tasse perché lo stato, in quanto coercizione (come dice gran parte della storia del pensiero politico) è un male che occorre combattere.
Di fronte a queste circostanze neanche la vecchia soluzione del liberalismo: riduciamo drasticamente la potestà della politica di produrre beni pubblici tramite scelte collettive, sembra una soluzione adeguata. L’illusione che esista una morale pubblica, o un’etica pubblica, o anche un ‘patriottismo costituzionale’ in grado di creare un numero sufficientemente ampio di valori condivisi, o un’identità condivisa, si sta mostrando appunto un’illusione.
Contemporaneamente, il numero delle questioni sulle quali appare opportuno trovare un accordo, o delle regole condivise, cresce al pari della difficoltà ad identificarle. Per farlo occorrerebbe inventarsi una morale laica, diversa da quella delle morali religiose, ma tutto sommato accettabile anche dalla religione. Ci si prova ma non sembra sia facile e il fallimento dello scientismo di creare una morale ispirata alla teoria e alla prassi delle scienze naturali è un esempio di quanto il progetto sia difficile da realizzare.
Si pensava anche che i diritti naturali potessero essere la base di questa convivenza tre morale laica e morale religiosa, ma anche essi, non solo non sono condivisi da tutti i componenti delle società occidentali, ma la loro estensione, e le relative modalità di godimento, non cessa di provocare contrasti legali e contese sociali. Per di più, è anche da tener presente che tutti gli altri cataloghi dei diritti portano ad un’espansione della sfera decisionale pubblica, o dell’intervento dello stato e della politica, che crea problemi forse anche più gravi e pertanto ancor più difficilmente risolvibili.
Il fatto è che tutte le nostre culture politiche e scientifiche, in maniera più o meno accentuata, si fondano se non sulla comunanza per lo meno sulla complementarietà non conflittuale di valori, credenze e comportamenti. Di fronte al fatto che questo mondo non esiste più il tentativo dei laici oltranzisti di difendere la società dalla religione cattolica rischia se non altro, o a essere benevoli, di offuscare il problema reale.
E questo, da secoli, è rappresentato dal fatto le religioni hanno una concezione finalistica dell’uomo e dell’universo che in Occidente, per lo meno dall’inizio della cosiddetta ‘modernità’, ha finito per scontrarsi con lo sviluppo della scienza e della filosofia. Noi possiamo anche credere che la “collera anti teologica” provocata nel Machiavelli dalla constatazione delle inumane crudeltà a cui dava esito lo spasmodico interesse del Cristianesimo per la salvezza delle anime sia all’origine di quel tentativo di por fine e limite alla sudditanza della filosofia, della scienza e della società nei confronti della teologia, e che ci darà poi lo ‘stato laico’. Solo che non possiamo più immaginarlo in quei termini perché nessuna diversa morale e nessuna scienza potranno mai eliminare la religione dalla nostra società.
Atene e Gerusalemme sono i termini del dramma umano e non ha senso individuare il nemico nella Roma che quell’antagonismo ha cercato di comporre. Certamente in molti casi e molte circostanze Roma ha sbagliato, ma ciò significa anche che oggi il nostro peggior nemico è da individuare in quel cattolicesimo che è tra le poche religioni a riconoscere la legittimità (si pure condizionata) della ‘via della ricerca’?
Certamente qualcosa si è rotto, ed anche chi rimane incerto e perplesso di fronte ai problemi posti dalla possibilità della produzione non sessuale della vita, e si chiede se non sia il caso di darci, brutalmente, un taglio, si domanda quale mai potrà essere il futuro impatto di quel “finalismo della natura umana” (al quale il cattolicesimo non può rinunciare, se non altro, nel definirlo) sullo sviluppo della ricerca scientifica.
Si tratta di un problema affine a quello nel quale certi liberali (quelli per così dire ‘laici’, non quelli cosiddetti ‘cattolici’) si erano già imbattuti quando all’inizio del secolo scorso avevano iniziato a mettere in dubbio che nelle vicende politiche ed economiche esistesse davvero una ‘mano invisibile’. Quando avevano scoperto che, essendo il più delle volte esiti non-intenzionali di azioni umane intenzionali, le istituzioni sociali, pur potendo essere costantemente migliorate, si evolvevano senza seguire un senso ed fine. E questa mancanza di finalismo dava vita a posizioni diverse da quelle della dottrina sociale cattolica su problemi di grande importanza come ad esempio quello di ‘bene comune’, di ‘giustizia sociale’, e di ‘destinazione universale dei beni’.
Da questo punto di vista, il contrasto tra un certo tipo di liberalismo e il cattolicesimo è evidente e difficilmente componibile. Ma essere laici, per lo meno per quei liberali, significa restare sempre aperti al confronto, scettici (perché consapevoli di essere fallibili) nei confronti delle altrui come delle proprie convinzioni. Soprattutto non lasciarsi, neanche per un istante, sfiorare dall’idea che i problemi posti dal tumultuoso emergere di novità che caratterizza il nostro tempo possano essere risolti col metodo dell’esclusione di qualcuno dallo ‘spazio pubblico’.