Tra Cina e Iran, Obama mostra tutti i sintomi della “sindrome Carter”
05 Febbraio 2010
L’amministrazione Obama mostra sempre più sintomi della “sindrome Carter”, la pericolosissima patologia politica che colpì gli Usa tra il 1977 e il 1981 con risultati disastrosi: una presidenza affetta da enfasi retorica, mancanza di raccordo con la realtà, segnali contraddittori, sbandieramento pleonastico del tema dei diritti umani. Risultato finale: un clamoroso declino della potenza americana (che nel 1980 aveva perso Iran e Afghanistan, aveva spinto Nuova Dehli ancor più nelle braccia dell’Urss e aveva lasciato tutta l’Africa in balìa dei miliziani di Fidel Castro in Etiopia, Mozambico, Angola e persino Zaire).
L’ultimo episodio della patologia è di questi giorni: qualcuno infatti –presumibilmente Obama in persona- ha infatti deciso di tirare tre calci nei denti alla Repubblica Popolare di Cina. Prima una fornitura di armi a Taiwan, quindi un attacco frontale alla politica commerciale cinese da parte di Obama in persona che ha promesso una politica commerciale più severa nei confronti di Pechino, accusandola di mantenere tasso di cambio dello yuan a un livello ”non realistico di svalutazione rispetto al dollaro, con il risultato di gonfiare artificialmente il prezzo delle merci americane sul mercato cinese, riducendo altrettanto artificialmente il prezzo dei prodotti cinesi su quello americano e non solo”; e per concludere l’invito ufficiale al Dalai Lama alla Casa Bianca.
Il disastro è che mentre la prima e la seconda mossa rispondono comunque ad una logica politica –sia pure discutibile – la terza è palesemente frutto di annebbiamento mentale. In questo momento, infatti, tutto il poco prestigio che Obama riscuote in un campo internazionale da cui si è clamorosamente ritirato dopo aver urlato a tutto il mondo per i primi sei mesi del suo mandato che “iniziava una nuova era”, è legato alla riuscita di un accordo con Russia e Cina sulle sanzioni all’Iran. Passaggio centrale della crisi mediorientale, determinante per l’approvvigionamento energetico, con effetto domino sulla crisi israelo-palestinese, in cui Washington si gioca peraltro i rapporti con i suoi alleati arabi, ferocemente anti-iraniani: Egitto, Arabia Saudita, Emirati del Golfo Giordania e Marocco.
Questo, in una fase in cui Obama stesso viene dileggiato dai giornali israeliani che più slegatamente avevano tifato per lui, con un Haaretz che ha definito l’emissario personale di Obama in Medio Oriente Mitchell: “Un canguro che se ne salta con una grande borsa vuota da una capitale all’altra, senza alcuna proposta da fare”. Mentre Beshir al Assad, dittatore siriano, si diverte addirittura a dileggiare il presidente Usa: “Non abbiamo ancora ricevuto dall’amministrazione Obama una chiara idea di quello che veramente vogliono che succeda in Medio Oriente”.
Per tornare al Dalai Lama, è chiaro poteva e doveva essere invitato da Obama un minuto dopo l’accordo all’Onu –quindi con la Cina – sulle sanzioni contro Teheran, invece Obama ha deciso di irritare con una mossa assolutamente non urgente, proprio nella fase saliente della trattativa, ottenendo la scontata, disastrosa, risposta di Pechino che manovra con perizia l’arma del veto. Da Parigi, infatti, il ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi ha annunciato che la Cina in questo momento non solo non intende trattare sulle sanzioni, ma ritiene addirittura che non se ne debba assolutamente neanche parlare: “Parlare di sanzioni, in questo momento, complicherà la situazione. La questione nucleare iraniana deve essere risolta attraverso un processo diplomatico. Le cose continuano a muoversi e pensiamo che sia molto importante concentrarsi sul processo diplomatico, attraverso il dialogo e la consultazione. Non penso che gli iraniani abbiano completamente chiuso le porte alla proposta di fornitura di combustibile nucleare per il reattore di ricerca di Teheran. Faremo del nostro meglio per vedere come rilanciare i negoziati nel più breve tempo possibile”.
Ahmadinejad ha così trovato in Pechino la sponda di cui aveva assolutamente bisogno per rilanciare per l’ennesima volta un negoziato palesemente morto e continuare così indisturbato i propri programmi nucleari. La “nuova” proposta negoziale che Teheran ha infatti avanzato è palesemente una presa in giro, perché pretende che la consegna di uranio arricchito all’estero per proseguire nel processo, avvenga solo contestualmente alla fornitura di pari quantità di uranio all’Iran. Il tutto, nella evidente intenzione dell’Iran di continuare indisturbato a arricchire uranio, senza nessun controllo esterno. Sia gli Usa che la Francia che l’Inghilterra, che Ue, che la stessa Russia l’hanno infatti seccamente rigettata. Ma non Pechino, come s’è visto, che ora impone un nuovo, inutile e quasi umiliante round negoziale.
Peggio ancora, la decisione di Obama di ricevere il Dalai Lama, ha senso solo in un quadro complessivo che veda gli Usa – e questa presidenza – lavorare strategicamente su questo terreno “à tout azimut”, nei confronti di tutto il pianeta. Ma non c’è il minimo riscontro di iniziative americane o obamiane né verso lo stesso Iran, né verso il Darfour o altre situazioni di crisi. Di nuovo, un pessimo “dejà vu” della presidenza Carter che agitò i diritti umani per indebolire il regime dello Scià, senza sapere minimamente gestire la crisi del suo regime, con l’esito disastroso che è sotto gli occhi di tutti.
Questo di Obama è dunque il secondo errore dilettantesco sui tempi da lui commesso a proposito della ormai minacciosa crisi iraniana. Anche uno consigliere d’ambasciata alle prime armi avrebbe infatti compreso che lo “storico” discorso del Cairo all’Islam, in cui offriva credito alla dirigenza iraniana, avrebbe dovuto essere pronunciato non il 4 giugno, ma anche solo dopo pochi giorni, dopo, non prima, delle elezioni presidenziali iraniane del 12 giugno che hanno così clamorosamente smentito tutto l’impianto di quella dichiarazione.
Il tutto, nelle costante riproposizione di uno schema di comportamento tipico delle presidenze democratiche in cui l’ideologia programmatica (a partire dai pur fondamentali 14 punti di Wilson del 1917), non trovava un raccordo concreto con la realtà delle crisi, concorrendo a produrre risultati esiziali (allora, il Trattato di Versailles che incubò la Seconda guerra mondiale).