Tra estremismo e non violenza, le contraddizioni di Puigdemont
02 Novembre 2017
Puigdemont: non mi piace il suo confuso estremismo, ma chapeau al suo rifiuto della violenza. “Noi rispetteremo il risultato delle elezioni del 21 dicembre” così il Sole 24 ore dell’1 novembre riporta una dichiarazione di Carles Puigdemont sul Sole 24 Ore dell’1 novembre. Non mi piacciono gli ultra – indipendentisti della Catalogna perché al di là del merito (non considero una bestemmia – come è successo nel caso della Scozia – rivendicare l’autodeterminazione di un popolo come bene o male è quello catalano, e se l’Europa avesse lo spazio per ragionare seriamente sul proprio destino, dovrebbe prendere in considerazione anche una ipotesi di confederazione tra regioni invece che tra Stati, e in questo caso va osservato come la Svizzera, con 8 milioni e mezzo di abitanti, si divida in 26 cantoni autonomi) il loro metodo tipicamente estremistico di anteporre la propaganda alla politica, l’agitazione a legali strategie democratiche esaspera le questioni invece di risolverle. Comunque trovo ammirabile la scelta antisessantottina dell’ex sindaco di Gerona di ripudiare una violenza che in una terra così tragicamente segnata come quella catalana e spagnola, diverrebbe esplosiva. Mi piacciono i popolari spagnoli, forza decisiva nella transizione post franchista perché assemblò destra conservatrice (e anche reazionaria) e centrodestra moderato dando forza allo Stato spagnolo. Trovo perfetta la guida di José Aznar che nella bufera post 11 settembre 2001, tenne la barra ferma sull’alleanza occidentale al contrario dei Jacques Chirac e dei Gerhard Schroeder. Ho comprensione per un Mariano Rajoy un po’ schiacciato dal Berliner consensus, tra l’altro esercitato anche dando una manina in una certa fase all’indipendentismo catalano, che cerca di fare il proprio dovere. Però la sua tattica sull’indipendentismo catalano mi sembra più ispirata dalle ragioni della politica spicciola (porre le basi per recuperare un po’ di voti) che da una visione da statista: infatti è sempre un passo indietro rispetto alla situazione (perché non ha sciolto prima la Generalitat quando è stato indetto il referendum per l’indipendenza? Perché non ha trattato con Puigdemont sulle elezioni?). Dal 2011 in Italia viviamo in mezzo a furbate opportunistiche di fatto ispirate dal berlin-brusselese ordine imperante, e sappiamo quanti guasti ciò procura al nostro tessuto democratico. Forse Madrid avrebbe potuto tener conto di certe lezioni romane.
Quell’oscuro cospiratore russo che paga in rubli. “Non vi siete mai chiesti come mai questi annunci venivano pagati in rubli?” questa domanda che il senatore democratico Al Franken rivolge agli uomini dei vari social network dominatori della scena mondiale, ascoltati sulle vicende legate al cosiddetto Russiagate, e che è registrata da Arturo Zampaglione sulla Repubblica dell’1 novembre, fa inesorabile chiarezza su che cosa sia veramente successo negli Stati Uniti nella campagna delle presidenziali del 2016. Quelli che un eccitato Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, anche lui il primo novembre, chiama “i cospiratori russi” con “il loro modo di manipolare l’informazione sul web”, pagavano insomma la loro segretissima e sofisticatissima (parole di una meno lucida del solito Condoleeza Rice) propaganda via Facebook o Twitter in rubli! Al fondo la verità era stata già svelata dal loffio James Comey, in una delle sue tante deplorevoli e ambigue mosse per condizionare il potere politico democraticamente legittimato, quando aveva detto che non aveva mai visto interventi segreti russi annunciati con un rumore così “loud”, così forte. Come appare assai evidente Mosca non ha cercato di organizzare nessuna manovra segreta (l’aggettivo “segreta” è quello da sottolineare) per condizionare il voto negli Stati Uniti, bensì ha voluto solo spiegare agli americani che tutte le manovre a stelle e strisce per condizionare politicamente i russi, possono essere replicate anche nel cuore dell’impero (ci vuole un osservatore europeo come Ivan Krastev sul New York Times dell’1 novembre per spiegare come “the russian leaders believe that Washington interferes in their domestic politics”: i leader russi credano che Washington interferisca nella loro politica interna). Se invece che un Klement von Metternich che riassorbe la Francia nel sistema europeo, senza vendette dopo la stagione napoleonica, si lascia spazio ai George Clemenceau che vogliono vendicarsi dei tedeschi dopo la Prima guerra mondiale, l’unico esito è la preparazione di nuove tensioni con gravi rischi di nuovi conflitti. È un peccato che Mosca dopo la fine pacifica dell’Unione sovietica e della guerra fredda abbia trovato dei Thomas Woodrow Wilson tipo Barack Obama (invece che degli Harry Truman che ricostruiscono la Germania –almeno quella occidentale- sconfitta con il Piano Marshall e la difendono con la Nato) che scatenano i vari Clemenceau in circolazione. Per non parlare di quei geni strategici tipo John McCain che considerano una grande nazione da secoli al centro del Vecchio continente (e dell’Asia centrale), come “una pompa di benzina con uno Stato intorno”.
Signorini for president. “Io spero che Corinne Clery non si infili nel mio letto come ha già fatto in passato!” così sul Secolo XIX del 17 ottobre viene riportata una frase di Serena Grandi. Non so se Silvio Berlusconi prevarrà alle prossime elezioni, ma tra la Grandi, la Clery, la Gerini e i suoi supposti tentati threesome, la Lory Del Santo resistente alle avance se non fruttifere, tra i Kevin Spacey che trenta anni fa importunò un attore di 14 anni a il ministro inglese che nel 2002 mise una mano sul ginocchio di una giornalista (“è ancora intatto”: informa la giornalista), le Asia Argento con le loro così tempestive denunce, la signorina toccata sul sedere da Bush sr, il clitoride alla coque di Dustin Hoffman, ci sembra che comunque il dominatore della stagione che stiamo vivendo non possa che essere Alfonso Signorini.
Figli e figlia di Fassino. “Martina è uno dei miei figli politici più riusciti” dice Piero Fassino al Corriere della Sera del 13 ottobre. E l’Appendino è la figlia politica meno riuscita?